Non troppo tempo fa, diciamo fino a tutto il XVII secolo, era l’India il principale polo dell’industria tessile: la produzione indiana di tessuti era la protagonista del commercio mondiale, in Asia, in Africa, e in Europa, che importava tessuti indiani, soprattutto di cotone. L’Inghilterra, peraltro, aveva un primato nei tessuti di lana, che erano i più usati dagli europei. Oggi, noi preferiamo il cotone, mentre usiamo la lana solo in inverno e per certi capi: l’espansione coloniale inglese in India ha a che fare con il controllo della materia prima, la stoffa, mentre la produzione del prodotto a maggior valore aggiunto, cioè il capo finito, venne gradualmente accentrata in Inghilterra, ed eventualmente riesportata in India e in tutto il mondo. Così si costruisce un impero, senza dimenticare il controllo dell’Egitto, l’altro grande produttore mondiale.
Anche la guerra civile americana non si capisce senza pensare all’importanza del cotone: e del passaggio da una semplice produzione di materia prima con manodopera schiavistica, base di una società statica e poco moderna, ad un’economia industriale in cui la materia prima potesse finalmente venir trasformata in prodotti finiti. Insomma, senza Lincoln non solo non si sarebbero liberati gli schiavi, ma non avremmo avuto le icone della moderna industria americana, i blue jeans, le tshirt…
Sì, qualcuno ricorderà che i primi blue jeans usavano una tela forse inventata a Genova, detta blu di Genova e poi blue jeans: ma quello che conta è il potenziale industriale per produrre e vendere, e l’idea vincente per trasformare un pezzo di stoffa in un capo finito, il cui valore è anche immateriale: quando compriamo, per esempio, un jeans Levi’s non compriamo solo una stoffa, ma il Far West, le cavalcate, Marlon Brando e James Dean: storia, leggenda, cinema e marketing, assieme a un sistema di produzione che permette al consumatore globale di trovare lo stesso identico paio di jeans a Milano, a Roma, a Tokyo, a Buenos Aires. Se no, 150 euro per un paio di brache da vaccaro in cotone rustico non si spiegano: e invece.
Diversa la storia italiana: perché noi un’industria tessile l’abbiamo avuta, e l’abbiamo, ma su scala infinitamente minore. Prima di tutto per lo scarso controllo delle materie prime: non molta e non eccellente la lana italiana, e niente cotone, né locale, né conquistato oltreoceano.
La tradizione italiana dell’artigianato di lusso ha avuto la seta: un’altra storia avventurosa, che anche stavolta ci ricorda come non sia vero che l’Europa sia il centro del mondo. La seta era dei cinesi: sin dall’antichità la vendevano fino in Italia, e parliamo addirittura degli antichi romani, che non avevano però il dominio di alcunché, e quindi acquistavano a carissimo prezzo, in oro, l’esotico prodotto giunto fino alle rive del Mediterraneo attraverso un complesso sistema di carovane e di intermediari, che riportavano indietro, ai cinesi, l’oro di quei buzzurri europei, gente che vestiva di lana grossa e pellicce, figuriamoci.
Qui c’è una delle prime storie di spionaggio industriale; sembra proprio accertato che due monaci cristiani e asiatici, giunti in pellegrinaggio a Costantinopoli, città piena di chiese e luoghi santi, abbiano rivelato il trucco dei bachi da seta a un imperatore cristiano: religione e affari, pellegrinaggi e favori politici. Non c’è da stupirsi che, tempo dopo, l’imperatore cinese abbia bandito i cristiani, considerati inaffidabili agenti stranieri. Ma intanto il baco da seta era arrivato, e l’Italia, dal Medioevo diventò il primo centro di produzione della seta. Attenzione: non diventi una potenza mondiale con la seta, al massimo fai una produzione limitata per clienti aristocratici anche stranieri, e questa, come sappiamo, è in effetti la tradizione italiana. Anche se le cose cambiano, e con l’invenzione della seta artificiale e lo sviluppo industriale dei paesi asiatici, la seta italiana è diventata poco più che un elegante relitto, e i marchi italiani si limitano, in gran parte, a porre il loro prestigioso marchio su tessuti di nuovo di provenienza orientale.
Geni e cialtroni, gli italiani, l’altra tradizione nazionale sta all’estremo opposto, nel riciclaggio dei cascami e degli avanzi.
Non si può negare che la parola “magliaro” ha un suo peso simbolico, letterario: non solo è stato per un certo periodo storico, diciamo il secondo dopoguerra, un mestiere identificato, a torto o a ragione, con gli emigranti italiani che raccoglievano e riciclavano in Germania, Svizzera, Francia avanzi e scarti, battendo i mercatini ambulanti. Un’identificazione, quella tra magliari e italiani, che abbiamo introiettato con senso di colpa: oggi che i magliari sono (quasi) spariti, il richiamo a “non fare i soliti magliari” risuona allarmato nei gruppi di turisti italiani all’estero, a scongiurare brutte figure e litigi inutili. Eppure, quella della rigenerazione dei tessuti, a partire dalle scorte sprecate e abbandonate dall’esercito americano dopo il 1945, ha una sua nobiltà, che è stata, per esempio, alla base della rinascita di un polo industriale di tutto rispetto come quello di Prato, che aveva alla base della sua filiera produttiva la raccolta su grande scala dei “cenci”, cioè gli abiti usati e gli scarti di lavorazione, ritrasformati in filo e in tessuto.
Oggi, il tessile italiano affronta sempre nuove trasformazioni: l’alta moda italiana non impiega che pochi tessuti “made in Italy”, il suo valore aggiunto è essenzialmente immateriale, design e prestigio della firma, che costituiscono comunque il vero valore aggiunto della moda italiana. Al tempo stesso, la delocalizzazione della produzione sembra oggi cominciare a incontrare le prime resistenze: l’elezione del protezionista Trump alla Casa Bianca ha qualcosa a che fare con il disagio dell’industria cotoniera americana, un tempo la prima del mondo, che da anni investe cifre considerevoli per campagne all’insegna del “compra americano”, cercando di convincere i consumatori a preferire il prodotto tessuto con cotone nazionale e confezionato negli Usa. In questa campagna, oltre ai richiami patriottici, si sono aggiunti anche argomenti più moderni e sofisticati: l’idea che oggi il tessuto di cotone americano da lavoratori meglio pagati e meglio protetti sindacalmente di quelli asiatici, mentre la coltivazione non impiegherebbe che in maniera molto più controllata pesticidi e altri inquinanti chimici: il prezzo maggiore, quindi, si giustificherebbe dal punto di vista etico ed ecologico.
In effetti, la sempre maggiore attenzione alla sostenibilità ecologica della produzione, in un mondo che i trasporti veloci hanno reso più piccolo, ma anche dove cominciano a scarseggiare acqua e suolo coltivabile, e salgono i livelli di anidride carbonica che impattano sul clima, porta a limitare lo spostamento non necessario di merci via nave o via aereo, e a porsi il problema degli scarti. Questo, dal lato della riduzione dell’inquinamento da trasporto, sta portando alla riscoperta di coltivazioni tessili italiane tradizionali e dimenticate, come la canapa. Dall’altro, quello della gestione rifiuti, i vecchi “cenciaioli” hanno di fronte a sé il nuovo business del recupero con nuove tecnologie degli scarti tessili, la roba che prima non si poteva nemmeno recuperare, e che finiva in discarica, dove ha un fortissimo potenziale inquinante. Ad oggi, solo il 12 per cento di questi scarti è avviato al riciclo, e questo comporta non solo uno spreco, ma un danno ambientale di prima grandezza. Una fibra tessile abbandonata nell’ambiente danneggia l’acqua, dove rilascia fosfati e nitrati, produce, se bruciata, quantità importanti di gas serra, può essere addirittura tossica. Un’industria verde, che chiuda il ciclo, e preservi la terra che all’inizio della filiera ha prodotto lana, lino, cotone, è la prospettiva di oggi.
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