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Nuove tecnologie per un’industria tessile ecosostenibile: quali sono e come funzionano

Quella dell’industria tessile è una filiera lunga e inquinante in tutti i molti passaggi che vanno dalla materia prima al prodotto finito. L’attenzione verso una moda più responsabile sta però crescendo, così come la produzione di tessuti sostenibili che possano sostituire quelli “tradizionali”

Tra le attività economiche che incidono maggiormente sulla sostenibilità ambientale, l’industria tessile è tra i primi posti insieme a quella petrolifera, che impiega fonti fossili per produrre energia. Dalla materia prima al prodotto finito, sono moltissimi i passaggi richiesti: ognuno di questi ha un impatto rilevante.

Di fronte a questo scenario, considerato che la produzione mondiale di indumenti è destinata a crescere del 63% entro il 2030, si dimostra necessario aderire ai progetti e alle proposte che le nuove tecnologie stanno avanzando in merito, attraverso una serie di interventi mirati e ragionati anche al cambiamento delle abitudini di noi esseri umani.

I capi di abbigliamento sono probabilmente il bene più comune che le persone acquistano nel mondo, e il numero medio di capi che un individuo acquista ogni anno è cresciuto drasticamente: una ricerca di McKinsey & Company mostra che il numero di capi prodotti annualmente, a partire dal 2000, è più che raddoppiato e che aveva superato i 100 miliardi di pezzi l’anno già nel 2014.

Tralasciando le condizioni di lavoro e di sfruttamento alle quali purtroppo ancora molto spesso sono sottoposti i lavoratori del settore, i problemi principali causati dall’industria tessile includono il consumo di risorse, l’inquinamento delle acque, l’inquinamento atmosferico e l’inquinamento derivante dalla produzione di rifiuti solidi. Se consideriamo il boom più recente della “fast fashion” (ovvero la “moda veloce”, che consente una disponibilità costante di nuovi stili a prezzi molto bassi), è scontato immaginare il forte aumento della quantità di indumenti prodotti, utilizzati e infine scartati.

I cittadini europei consumano ogni anno quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11 kg. Globalmente, ogni anno, circa 90 milioni di capi di abbigliamento finiscono nelle discariche. Gli indumenti usati possono essere esportati al di fuori dell’UE, ma per lo più vengono inceneriti o portati in discarica (87%). A livello mondiale, meno dell’1% degli indumenti viene riciclato come vestiario, in parte a causa di tecnologie inadeguate. Alcuni degli agenti inquinanti che finiscono nelle discariche includono: la filaccia, gli scarti delle fibre, i ritagli e gli imballaggi usati prodotti nella preparazione del tessuto; i fanghi prodotti dal trattamento delle acque di scarico; contenitori dei prodotti chimici e dei coloranti utilizzati nei processi di colorazione e finissaggio dei tessuti.

L’impatto della produzione e dei rifiuti tessili sull’ecosistema

Si calcola che l’industria tessile sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme.

Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2017 hanno generato circa 654 kg di emissioni di CO2 per persona. Nello specifico, l’inquinamento atmosferico prodotto dall’industria tessile include: ossidi di azoto e diossido di zolfo derivanti dalle fasi di produzione energetica; composti organici volatili (VOCs) prodotti nella fase di coating, asciugatura, colorazione, trattamento delle acque di scarico e stoccaggio; vapori di anilina, acido solfidrico, cloro e diossido di cloro prodotti nelle fasi di colorazione e decolorazione.

 

Abbigliamento, una filiera molto lunga e inquinante

Inoltre, ogni giorno, le fabbriche tessili rilasciano milioni di litri di acque reflue non trattate nelle fognature pubbliche che di fatto vengono scaricate nei fiumi e nei mari. Tendenzialmente vengono impiegati 95-400 litri di acqua per kg di tessuto a seconda del processo di lavorazione in corso e le acque reflue tessili ad oggi sono circa il 22% del volume totale generato da tutti i diversi tipi di industrie. Per questo motivo lo smaltimento delle acque reflue è divenuta una delle maggiori preoccupazioni ambientali negli ultimi decenni.

Il processo di colorazione delle fibre rappresenta il passaggio più inquinante, consumando più di 100 litri di acqua per chilogrammo di materiale trasformato. L’80% di questo volume viene scartato come acque reflue estremamente colorate, visto lo scarso assorbimento da parte delle fibre tessili. Si stima che ogni anno circa 105 tonnellate di coloranti vengano rilasciate nell’ambiente tramite i 200 miliardi di litri di acque reflue.

 

Le tinte sono composte da molecole che sono state studiate e scelte appositamente per garantire grande stabilità e resistenza. Questo implica che il colorante rappresenti un enorme problema nelle acque di scarico perché non facilmente degradabile: la maggior parte di queste tinte sono dette azotate perché posseggono un particolare legame chimico tra due atomi di azoto, solitamente non presente in natura e quindi particolarmente resistente alla degradazione. Quella dei capi di abbigliamento è una filiera molto lunga, nella quale l’indumento è trattato, impregnato, imbevuto, vaporizzato con i più svariati prodotti chimici: coloranti, pigmenti artificiali, formaldeide, nichel, ammoniaca, cloruro, nitrato, fosfato, solfato, metalli pesanti e altro ancora. Alcune fibre vengono trattate, per esempio, con il dimetilfumarato, un tipo di antimuffa usato per preservare i tessuti durante lunghi periodi di stoccaggio.

Non è un caso infatti che Rapex, il sistema di allerta rapido europeo per i prodotti di consumo pericolosi (esclusi quelli alimentari, farmaci e presidi medici), metta al primo posto della classifica per sostanze chimiche a rischio, proprio vestiti e capi di moda e che il 7-8% delle patologie dermatologiche, stando ai risultati di uno studio commissionato dalla Commissione UE – Chemical substances in textile products and allergic reactions – siano dovute ai vestiti che indossiamo. Quindi, oltre che per l’ambiente, l’abbigliamento che indossiamo ogni giorno è potenzialmente dannoso direttamente per la salute umana essendo contaminato da sostanze tossiche che interagiscono con il nostro organismo tramite il contatto prolungato con la pelle.

Inoltre, il lavaggio di indumenti sintetici è responsabile del rilascio del 35% di microplastiche primarie nell’ambiente marino. Un ciclo di lavaggio di soli capi sintetici produce fino a un milione di microfibre, tutte di dimensioni inferiori a 5 millimetri, il 40% non viene intercettato da nessun impianto e completa il suo viaggio solo in mare. Dai dati ottenuti con la ricerca A New Textiles Economy della fondazione Ellen MacArthur è emerso che ogni anno vengono scaricate in mare mezzo milione di tonnellate di microfibre, l’equivalente di cinquanta miliardi di bottiglie di plastica. Secondo una ricerca dell’University College of Dublin, su un carico da 6 kg, i tessuti misti cotone e poliestere rilasciano quasi 138 mila fibre, il poliestere circa 496 mila e l’acrilico 729 mila. Dall’impianto di depurazione poi, i frammenti potrebbero tornare all’uomo attraverso la catena alimentare. Sia tramite i fanghi di depurazione usati come fertilizzanti nei campi, sia attraverso il bioaccumulo in quegli organismi usati per l’alimentazione umana. Come detto in precedenza, una delle ipotesi sulla tossicità delle microplastiche è legata soprattutto alle sostanze nocive impiegate per la loro produzione ma anche ai contaminanti organici e metallici raccolti in ambiente e assorbiti sulla loro superficie. In questo modo le microplastiche potrebbero fungere da vettori per tali composti tossici, aumentando l’esposizione effettiva.

Una strategia per ridurre, ad esempio, le microfibre prodotte dei nostri lavaggi è fare un investimento in un prodotto tecnologico come la Cora Ball. Creata dal Rozalia Project for a Clean Ocean e finanziata in crowdfunding su Kickstarter, si tratta di una sfera che cattura le microfibre che vagano per il cestello dopo essersi staccate dai vestiti. Evitando che finiscano negli scarichi, riduce i residui dei capi sintetici del 26%. Un’altra soluzione è il sacco Guppy Friend: i vestiti vanno inseriti e lavati al suo interno. L’acqua passa attraverso le maglie del sacco, l’azione della lavatrice rimane efficace ma le microfibre vengono intercettate, per poi essere raccolte alla fine del bucato. Esiste anche la possibilità di inserire dei filtri per le microfibre sia all’interno che all’esterno della lavatrice, che garantiscono una protezione quasi totale.

Ulteriore strategia per ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile riguarda l’orientamento ecosostenibile della filiera, le cui potenzialità sono enormi, fino a rappresentare il 20% del fatturato del settore in Italia (4,2 miliardi). D’altra parte, già ora il 55% degli italiani è disposto a pagare di più per capi di abbigliamento eco-friendly realizzati con eco-tessuti. Negli ultimi anni, infatti, l’attenzione verso una moda più responsabile sta crescendo esponenzialmente, così come la produzione di tessuti sostenibili che possano sostituire quelli “tradizionali” e avere un minore impatto ambientale.

 

https://www.agendadigitale.eu/smart-city/nuove-tecnologie-per-unindustria-tessile-ecosostenibile-quali-sono-e-come-funzionano/

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