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Rasht, una città creativa della gastronomia

La rete di città creative dell’UNESCO, negli ultimi anni, ha considerato le diverse città del mondo, con una registrazione mondiale di varie città, in vari campi culturali, sociali e artistici. Nell’area dei piatti speciali, la città di Rasht in Iran, insieme a città come San Antonio, Foucault e Bergen, è stata inclusa nell’ elenco delle città creative . Storicamente, Rasht era un importante centro commerciale e di trasporto che collegava l’Iran alla Russia e all’Europa, e per questo era conosciuta come la “Porta d’Europa”. La città ha una storia che risale al XIII secolo, ma la sua storia moderna risale all’era safavide durante la quale Rasht era un importante centro commerciale della seta con numerosi laboratori tessili.
Rasht è una città in cui si sente sempre l’odore della pioggia accompagnato dalla dall’odore dei piatti gustosi e colorati. La città si trova tra le foreste ircane e il Mar Caspio, creando un ecosistema unico per questa bellissima città. Le case con tetto a capanna, strade bagnate dalle gocce di pioggia, e negozi che offrono meravigliosi piatti ai passanti, tutto costituisce le prospettive della città. Molti considerano Rasht come la capitale del cibo in Iran, sebbene Rasht sia anche la capitale della provincia, che ha 179 tipi di piatti locali registrati. Ci sono una varietà di cibi che vengono cucinati con pesce e una varietà di verdure autoctone, campi da tè, nonché muffin arrotondati e dorati. Quindi il nome della città di Rasht è stato elencato nell’elenco delle città creativa della gastronomi dal 2015.

Se si cammina nella questa città di foresta e pioggia, gli ampi aromi dei ristoranti ti attirano. Con l’inizio dell’autunno e il periodo della pioggia, la stagione della pesca inizia nel Mar Caspio. In questo momento, il mercato di Rasht è fiorente con una varietà di pesci pregiati. Le donne locali si riuniscono nello stesso mercato, puliscono e cucinano pesce e offrono ai turisti insieme al riso iraniano. Oltre al pesce, sottaceti e olive sono disponibili anche in diversi tipi. Con un giro nel mercato di Rasht, si può vedere una varietà di frutta e verdura locali. Ma i piatti di Rasht non si limitano solo ai frutti di mare. La varietà del cibo in questa città è così alta che puoi mangiare diversi tipi di cibo, varie grigliate, salse e contorni accanto al riso dai campi di Gilan. Durante il soggiorno a Rasht, ogni volta potresti provare un nuovo piatto. Tra le esperienze turistiche a Rasht, ci sono i negozi di tè, immersi nell’ aroma di tè, che si trovano soprattutto attorno alla piazza principale della città, “Sabzeh Meidan” e “Meidan e Shahrdari”. I negozianti di tè preparano il tè in teiera e samovar e lo servono ai clienti in tazze e piattini eleganti e belli.

Attrazioni

 

Museo Rasht

 

Il museo si compone di tre sezioni denominate, l’area archeologica, antropologica e un settore di esposizione di documenti. Qui sono esposti oggetti scoperti negli scavi di collinette come Marlik, Tukam, Daylaman, Cheraq Ali e la grotta di Tegran.

 

Moschea Safi

 

La costruzione risale al periodo safavide, è uno dei bellissimi edifici religiosi di Rasht. È così chiamato dopo Mohammad Mirza, noto come Safi Mirza, il figlio maggiore di Shah Abbas. La Moschea Safi è stata decorata con dei bellissimi intonaci e mosaici.

 

Antico bazar tradizionale

 

I bazar giornalieri sono i punti importanti della provincia di Gilan, offrono per davvero dei prodotti freschi, dalla verdura alla carne, e sono sempre più animati. Di solito si trovano nel cuore della città, ma anche i bazar fissi come Rasht, Astara, Talesh, Roodbar hanno le stesse caratteristiche. Quello di Rasht è un miscuglio tra quello giornaliero e quello fisso, perché è uno dei bazar più vivaci e animati della provincia.

 

Museo del patrimonio rurale di Gilan

Museo di Gilan è un museo nel parco forestale di Saravan a Rasht nella provincia di Gilan. Il museo si trova su un terreno con una superficie di circa 260 ettari nel parco forestale di Saravan situato a 18 chilometri dall’autostrada del Golfo Persico (Rasht-Tehran). Gli edifici di 9 villaggi originali della provincia di Gilan che sono simboli dell’architettura originale a Gilan sono collocati in questo museo. In questo museo sono rappresentati lo stile di vita, il lavoro, le case e l’artigianato locale delle persone a Gilan. Se siete appassionati delle montagne, antropologia, Caviale, zafferano, Mar Caspio, paesaggi storici e la cultura affascinante del medio oriente SITO Travel vi aiuta a organizzare il vostro viaggio in Iran, potete contattarci e contarci su di noi, perché la nostra esperienza nasce e si sviluppa sul campo.

 

Laguna di Eynak

La laguna di Eynak (laguna di occhiali) si trova ai margini del Parco Daneshjou a ovest della città di Rasht e in termini di superficie è considerata il secondo stagno più grande della provincia di Gilan. La sua superficie è di 12 chilometri. Nella palude di Eynak vivono alcuni pesci come torta salmonata e carpa d’allevamento.

 

Mirza Kuchack Khan

Mirza Kuchak Khan (1880-1921), con una sorta di ribellione fondò un movimento nelle foreste di Gilan che divenne noto come Movimento Forestale. La rivolta di Mirza era in risposta al periodo di decadenza politica determinato dall’avvento della prima guerra mondiale e dall’occupazione dell’Iran dalle truppe anglo-russe e ottomane. Il movimento forestale è stata una rivolta popolare che ha avuto luogo in uno dei periodi più delicati della storia iraniana fino al 1921 quando il movimento fu completamente abbandonato dopo la scomparsa di Mirza Kuchak Khan. Mirza Kuchak Khan morì il 2 dicembre 1921, in alta montagna a Talesh, in Gilan. La tomba di Mirza Kuchak Khan Jangali, si trova a sud di Rasht.

https://sitotravel.com/citta/rasht/?lang=it

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Tessile e Moda tornano a filare

Il forte rimbalzo del 2021 (+20,8%) dovrebbe permettere il recupero dei livelli pre-crisi. La ripresa delle sfilate (apre Milano) una spinta per alzare l’asticella oltre gli 83 miliardi di fatturato.
Vestire italiano è da sempre sinonimo di prestigio e qualità. Per chi produce e per chi acquista. La filiera della moda e del tessile rappresenta un vero e proprio fiore all’occhiello per la nostra economia e il nostro Paese. In Italia si contano oltre 400mila addetti e circa 50mila aziende. Nonostante la pandemia, il comparto ha mostrato segnali di recupero sorprendenti. Prosegue, infatti, la crescita del fatturato dopo il boom del primo semestre: +20% rispetto al 2020. Nei primi 11 mesi del 2021 l’industria della moda ha registrato un significativo rimbalzo del fatturato rispetto agli stessi mesi del 2020 (+20,8%). Mentre la produzione è aumentata del 10%. «Il 2021 è stato un anno di grande ripresa – ha spiegato Carlo Capasa, presi- dente di Camera Nazionale della Moda Italiana – . C’è stata una partenza enorme all’inizio e poi una stabilizzazione, ma l’inizio è stato davvero dirompente. Nel 2021 abbiamo recuperato due terzi di quanto abbiamo perso nel 2020, di 24 miliardi di euro ne abbiamo recuperati 16». Nel primo semestre si è assistito a un vero rimbalzo del settore che ha portato la crescita al 24%. Dopo il boom del primo semestre i dati delle esportazioni della moda italiana sono rimasti positivi anche nei primi dieci mesi dell’anno, con una crescita complessiva del 16,4% per i comparti della moda in senso stretto e del 39,9% dei settori collegati. Tra i principali mercati esteri, l’export verso la Cina è cresciuto del 50,1%, verso gli Usa del 31,8%, verso la Francia del 20,6%. Per quanto riguarda le stime del fatturato 2021 l’insieme di industria della moda e settori collegati supererà gli 83 miliardi di euro, per un +20,9% rispetto al 2020 e 7,8% rispetto al 2019. Per il 2022 le molte incertezze ancora presenti sui mercati internazionali difficilmente possono mettere a rischio il pieno recupero dei livelli di fatturato del 2019, con un anno di anticipo rispetto alle previsioni diffuse dagli operatori. E proprio nel segno della ripresa torna a Milano – in presenza – la settimana della moda donna, che si terrà in città dal 22 al 28 febbraio. In calendario, presentato a Palazzo Marino sede del Comune di Milano, ci sono al momento 169 appuntamenti, 67 sfilate di cui 57 fisiche e otto digitali, 69 presentazioni, 59 fisiche e dieci digitali.

Dallo studio della Sace, inoltre, emerge che il divario con i livelli pre-crisi è ancora ampio (-6,6%) seppure con alcune differenze: tessuti, abbigliamento in pelliccia e pelletteria e valigeria rimangono più indietro rispetto agli articoli di maglieria e alle calzature, che beneficiano infatti dell’impulso delle griffe internazionali del lusso; l’export di altri prodotti tessili, invece, è l’unico comparto ad aver già superato i livelli del 2019. Il fashion è caratterizzato da una catena del valore lunga e frammentata, composta da una molteplicità di piccoli produttori nelle fasi a monte e da grandi gruppi, spesso multinazionali, vicini al consumatore finale a valle. In questo contesto, l’Italia si configura come un attore di rilievo a livello internazionale: nel 2020, il Paese era il terzo esportatore mondiale di moda, secondo considerando unicamente il comparto delle pelli, e solamente il settimo importatore. Le imprese si mostrano ottimiste per le prospettive relative al 2022, sulla scia della ripresa attesa in importanti mercati di sbocco e di una maggiore propensione al consumo in un contesto di incertezza relativamente più contenuta rispetto al biennio precedente. L’analisi evidenzia inoltre come lo scoppio della pandemia ha fatto emergere, e in certi casi accelerato, alcuni temi che giocheranno un ruolo chiave nello sviluppo del settore. La moda infatti si trova di fronte a profondi cambiamenti strutturali che rappresentano una sfida e richiedono uno sforzo innovativo, su tutti la sostenibilità e la digitalizzazione. In questo senso è da registrare un accordo tra Intesa Sanpaolo e Sistema Moda Italia per rilanciare il settore. Liquidità finanziaria, accelerazione degli investimenti per la transizione 4.0, crescita sostenibile ed economia circolare sono al centro di questa collaborazione.

 

https://www.avvenire.it/economia/pagine/tessile-e-moda-tornano-a-filare

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SHOL-E ZARD

Lo Shol-E Zard è un tipico ed antico dolce persiano, preparato per l’appunto in Persia (l’attuale Iran), per la festa dell’Imam Hussein, (la festa dell’Arba’een).

INGREDIENTI:
200 g di riso a chicchi lunghi (basmati)
180 g di zucchero
4 cucchiai di acqua di rose per dolci (o aroma di rose)
80 g di pistacchi tritati (o di granella di pistacchi)
80 g di mandorle e altre 12 mandorle intere pelate per guarnire
1 l d’acqua
40 g di burro
1 bustina di zafferano
Cannella in polvere

Per prima cosa scottate le mandorle in un pentolino d’acqua bollente, quindi pelatele e tagliatele a lamelle. Tenetene da parte 12 spellate, ma intere. Tagliate il burro a pezzetti, sciogliete lo zafferano in un bicchiere d’acqua calda e tritate grossolanamente i pistacchi, tenendone da parte 2 cucchiai abbondanti.
Preparati i vari ingredienti mettete a bollire un litro d’acqua leggermente salata, a cui unirete il riso facendolo cuocere per 15-20 minuti a fuoco bassissimo mescolando continuamente. A questo punto unite al riso tutti gli altri ingredienti (zucchero, burro, zafferano, mandorle a lamelle ed i 2 cucchiai di pistacchi tritati), amalgamandoli molto bene. Sempre mescolando in continuazione, tenete il riso sul fuoco per altri 10 minuti, quindi toglietelo ed aggiungete l’acqua di rose o poche gocce di aroma di rose. Versate il composto in una pirofila rotonda e livellatelo con una spatola e lasciate intiepidire.
Attenzione, la pirofila o comunque il contenitore, deve essere rigorosamente rotondo, perchè il dolce va decorato secondo una precisa simbologia. Infatti, spolverizzate il dolce con la cannella in maniera da formare una croce dividendo così in 4 spicchi la superficie del dolce. Prendete le mandorle intere tenute da parte ed al centro di ogni spicchio create un fiore a tre petali, poi lungo tutta la circonferenza del dolce disponete i restanti pistacchi tritati (o la granella di pistacchi) in modo da formare una cornice. Quando il dolce sarà completamente raffreddato, passatelo in frigo per un paio d’ore prima di servirlo.

Ricette Iraniane

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Stufato di melanzane – Khoresh bademgian

È uno dei stufati principali (Khoresh) della cucina Persiana. Le melanzane sono un ingrediente popolare in Iran. Molti anni fa, quando sono venuta in Italia, la vista delle melanzane così tonde e cicciotte era un pò scioccante per me. Perché in Iran si usa solo le melanzane lunghe e sottili, perciò, per avere un sapore più autentico (se ci sono), scegliete quelle lunghe.

Questo stufato viene servito con il riso basmati quindi cominciate parallelamente anche con la preparazione del riso.

INGREDIENTS:

 2.5 kg Melanzane (meglio lunghe)

400 g Carne ovina o vitello

2 Cipolle

1 cucchiaino Curcuma

2 cucchiaio Concentrato di pomolodo

q.b. Burro chiarificato

2-3 Pomodori

Sbucciate le melanzane, tagliateli in modo longitudinale (o a metà), Aggiungete il sale, lasciateli in una scolapasta per 1-2 ore in modo che perdino l’acqua

Friggete le melanzane in burro chiarificato, in un tegame, fino ad avere un colore marrone oscura su ogni lato. In una pentola a pressione mettete 1 cipolla diviso a meta, la carne, un pò di curcuma, una tazza di acqua, sale e pepe

Lasciate a cuocere per  45 minuti (in una pentola normale ci vorranno 2 ore)

Non c’è bisogno di tagliare la carne a pezzettini, perchè alla fine della cottura, sarà così morbida che si spezza da sola

Cuciniamo il Khoresh:

Tagliate a dadini l’altra cipolla, e soffriggetela, Aggiungete la curcuma, sale & pepe e rosolate tutto per qualche secondo. Aggiungete il concentrato di pomodoro & la meta dei pomodori tagliati, rosolate tutto, finché anche l’olio diventi rosso. (quando finiamo di cucinare la carne)

Aprite la pentola a pression e buttate via la cipolla. (serviva solo ad assorbire l’odore di carne)

Aggiungete il brodo e la carne allo stufato

Mettete anche le melanzane dentro e sopra aggiungete l’altra meta dei pomodori tagliati.

Attenzione: Non mescolate, dovete essere molto delicati. Le melanzane devono mantenere la loro forma fino la fine. Coprite tutto con il coperchio e cucinate sul fuoco basso per 1 ora.

Quando I sapori dello stufato sono ben amalgamati, khoresh bademgian è pronto!

NOTES

Unica difficoltà di questo piatto è che le melanzane dopo ore di cottura, diventano molto morbidi MA devono mantenere loro forma intera. Se aggiustate il sale fine della cottura, state attenti di mescolare piano lo stufato.

Per farlo meno pesante, invece di friggere io lo metto al forno e il risultato non è da meno! 

A volte gli amici lo chiamano: spezzatino di melanzane.

Servite con il riso basmati preferibilmente con Tahdig!

Come accompagnamento, andrebbero bene con: lo yogurt greco, erbe fresche (sabzi khordan) o l’insalata.

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Insostenibile moda: le fibre sintetiche che fanno male all’ambiente

In una scena del film “Quel che resta del giorno”, diretto da James Ivory, interpretato da Antony Hopkins e ambientato in una grande residenza di campagna inglese negli anni ’30 del Novecento, due distinti (ma evidentemente poco aggiornati) signori inglesi si interrogano incuriositi su un personaggio che di lì a poco li avrebbe raggiunti, un giovane milionario americano che ha fatto fortuna nel Nuovo Mondo. Uno dei distinti signori dice all’altro: “Pare che abbia un’industria di sintetici” e aggiunge incuriosito: “Ma cosa saranno, poi, questi sintetici”?
Certo a quell’epoca l’industria dei tessuti sintetici era appena agli inizi, un’avventura della chimica e dell’industria degna del progresso del Nuovo Mondo, ma ancora pressoché sconosciuta in Europa. Oggi, però, a circa un secolo da quei tempi, tutti conosciamo bene i tessuti sintetici e anzi, molto probabilmente, non riusciremmo neanche più a immaginarcelo il mondo (Nuovo o Vecchio che sia) senza queste fibre che ormai ci circondano in tutte le forme, di tutte le consistenze e di tutti i colori. Eppure è proprio quello che forse dovremmo cominciare a fare: pensare a un mondo libero dalle fibre sintetiche. Sempre se abbiamo veramente a cuore l’ambiente e se abbiamo letto una recentissima ricerca pubblicata su Nature Scientific Reports, che ci sorprenderà con i suoi risultati. Perché, a quanto pare, la principale fonte di inquinamento da microplastiche degli oceani è dovuta proprio al lavaggio dei capi d’abbigliamento in fibra sintetica.
Già nel 2018 le Nazioni Unite, attraverso l’UNEP, il proprio programma ambientale, avevano lanciato l’allarme sul pericolo rappresentato dal peso che la frenesia dell’industria della moda esercita sull’ambiente a livello globale e non solo per quanto riguarda le risorse utilizzate per produrre i capi d’abbigliamento, ma anche per i rifiuti che questo settore produce.
Giusto per capire le dimensioni del problema, basti ricordare che l’industria della moda produce il 20% delle acque reflue di tutto il mondo e il 10% delle emissioni globali di anidride carbonica: più di tutti i voli internazionali e le spedizioni marittime. Le tinture tessili, poi, sono la seconda più grande fonte d’inquinamento delle acque a livello mondiale, dal momento che per creare un solo paio di jeans occorrono circa 7.500 litri d’acqua. Senza contare tutta l’energia necessaria all’industria tessile e l’inquinamento atmosferico derivante dalla sua produzione. E senza dimenticare, poi, i rifiuti prodotti: sempre secondo l’UNEP, ogni secondo (!) l’equivalente di un intero camion della spazzatura di tessuti, finisce in discarica o viene bruciato.

Su questa base, l’UNEP prevede che, se questa situazione non cambierà, entro il 2050 l’industria della moda sarà responsabile di un quarto del bilancio mondiale di emissioni di CO2. Infine, c’è la questione dei lavaggi: gli abiti infatti non inquinano solo quando devono essere prodotti o smaltiti, cioè all’inizio e alla fine della loro esistenza, ma anche durante tutto la loro vita utile, perché il solo fatto di lavarli fa sì che ogni anno venga rilasciata una gran quantità di microfibre negli oceani.
È proprio quest’ultima la questione che è stata affrontata da un team di ricercatori dell’Istituto per i polimeri compositi e biomateriali del CNR di Pozzuoli (NA), Francesca De Falco, Emilia Di Pace, Mariacristina Cocca e Maurizio Avella, autori dello studio pubblicato il 29 aprile sulla rivista Nature Scientific Reports intitolato “Il contributo dei processi di lavaggio degli abiti sintetici all’inquinamento da microplastiche”.
Le finalità di questo studio erano tanto semplici quanto importanti. Partendo dal fatto che il lavaggio dei tessuti sintetici è stato ritenuto la principale fonte di inquinamento da microplastiche primarie negli oceani – ovvero le plastiche direttamente rilasciate nell’ambiente sotto forma di piccole particelle di dimensioni inferiori ai 5 mm – i ricercatori hanno voluto quantificare l’effettivo contributo dei processi di lavaggio degli indumenti sintetici a questo problema ambientale. In secondo luogo hanno voluto capire in che modo le caratteristiche dei tessuti influenzavano il rilascio delle microfibre. Per rendere il test quanto più realistico possibile, hanno eseguito le prove di lavaggio su indumenti commerciali, usando una lavatrice per uso domestico. Dopo i lavaggi le acque di scarico sono state raccolte e fatte passare attraverso speciali filtri con diversa porosità. In questo modo sono state determinate con precisione quantità e dimensioni delle microfibre, mentre il rilascio è stato è stato analizzato anche in relazione alla natura e alle caratteristiche degli indumenti lavati.

I risultati hanno mostrato che la quantità di microfibre rilasciate durante il lavaggio varia da 124 a 308 mg/kg di tessuto lavato, in base al tipo di indumento. È una quantità che corrisponde a un numero di microfibre compreso tra 640.000 e 1.500.000.
Il team, poi, ha riscontrato che alcune specifiche caratteristiche del tessuto (come il tipo di fibre che costituiscono i fili e la loro torsione) hanno influenzato il rilascio delle microfibre durante il lavaggio e ha anche scoperto che una gran quantità di microfibre di natura cellulosica è stata rilasciata da vestiti realizzati con una miscela di poliestere e cellulosa.
Altre importanti indicazioni, infine, sono state ricavate sulle dimensioni delle microfibre, grazie alla scoperta che la frazione più abbondante di esse è risultata essere trattenuta da filtri con dimensioni dei pori di 60 μm, con fibre che presentavano una lunghezza media di 360-660 μm e un diametro medio di 12-16 μm. In altre parole, i ricercatori hanno ottenuto utili indicazioni anche sulle dimensioni delle fibre che riescono a passare attraverso gli impianti di trattamento delle acque reflue, finendo per rappresentare una minaccia per gli organismi marini.
Ma come e perché avviene il rilascio delle microfibre? Essenzialmente il distacco delle microplastiche dagli abiti sintetici è dovuto agli stress chimici e meccanici subiti dai tessuti durante il processo di lavaggio in lavatrice, che porta al rilascio delle microfibre le quali, grazie alle loro ridotte dimensioni, riescono a passare parzialmente indisturbate attraverso gli impianti di trattamento delle acque reflue, finendo direttamente in mare. Al momento la questione se questi impianti siano in grado (e in che misura) di trattenere queste particelle è ancora aperta e dibattuta. Quel che è certo, però, è che una gran quantità di microfibre è stata trovata in uscita da almeno 8 impianti di trattamento nella baia di San Francisco e altri studi hanno individuato la presenza di microplastiche simili allo sbocco di impianti in Svezia, Australia e Finlandia, indipendentemente da quella che era l’efficienza degli impianti o dal grado di avanzamento dei trattamenti.
Il riscontro di questi dati e i risultati dello studio suggeriscono, dunque, che proprio gli impianti di trattamento, grazie alla gran quantità di acque lavorate, potrebbero configurarsi come le porte attraverso le quali le microplastiche raggiungono i mari. D’altra parte la presenza di microplastiche negli ecosistemi marini è già ampiamente documentata, mentre microfibre sono state ritrovate sulle spiagge di tutto il mondo, nelle acque dell’Oceano Pacifico, del Mare del Nord, dell’Oceano Atlantico e persino dell’Artico e nei sedimenti di acque profonde.
Sulle conseguenze di questo fenomeno per la catena alimentare gli studi sono ancora insufficienti per trarre conclusioni certe ma, per quanto riguarda i possibili effetti sulla fauna marina, si ipotizza che le microfibre di Polietilene tereftalato (il classico PET delle bottiglie d’acqua minerale) ingerite dalla Daphnia magna, una diffusa specie di crostaceo che compone lo zooplancton, potrebbero causarne un aumento della mortalità con ripercussioni negative sulle specie che se ne cibano. Fibre tessili, poi, sono state individuate già alcuni anni fa anche in pesci e molluschi in vendita per il consumo umano, nei mercati di Makassar, in Indonesia, e della California negli USA.
La cosa, in effetti, non dovrebbe stupire dato che recenti stime valutano che gli indumenti sintetici contribuiscano per circa il 35% al rilascio negli oceani delle microplastiche primarie di tutto il mondo, facendone, di fatto, la principale fonte di questo inquinante.
Questo dato, a sua volta, è conseguenza del fatto che le fibre sintetiche rappresentano circa il 60% di tutte le fibre consumate ogni anno dall’industria dell’abbigliamento, che ammontano a quasi 70 milioni di tonnellate. Dunque ogni anno l’industria della ‘fast fashion’, cioè della moda rapida e del guardaroba (basato in gran parte sui tessuti sintetici) che deve essere cambiato e rinnovato velocemente, produce indumenti per circa 42 milioni di tonnellate di fibre sintetiche. Questi capi d’abbigliamento, poi, vengono lavati da circa 840 milioni di lavatrici domestiche che, ogni anno, consumano quasi 20 chilometri cubi d’acqua e 100 miliardi di chilowattora di energia.
È un ritmo troppo alto, un peso troppo gravoso da sostenere, prima di tutto per l’ambiente, ma anche per molti lavoratori del settore (spesso residenti in Paesi del Terzo Mondo) sottoposti a orari e condizioni di lavoro massacranti e paghe da fame, per mantenere bassi e competitivi i prezzi dei capi d’abbigliamento.
È per contrastare questo stato di cose che lo scorso 10 luglio, durante il Forum sullo Sviluppo Sostenibile di New York, le Nazioni Unite hanno lanciato l’Alleanza per la moda sostenibile, cui hanno aderito già 10 organizzazioni. Lo scopo è incoraggiare il settore privato, i governi e le organizzazioni non governative a creare una spinta, a livello di settore, per ridurre l’impatto sociale, economico e ambientale della moda trasformandola, invece, in un driver per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.
Insomma, forse è arrivato il momento di cambiare abitudini, piuttosto che abiti.

https://www.ilcambiamento.it/articoli/insostenibile-moda-le-fibre-sintetiche-che-fanno-male-all-ambiente

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Tessile sostenibile: digitalizzazione e sostenibilità al centro dell’industria italiana macchine tessili

Nonostante di pandemia, l’industria italiana delle macchine tessili non si è fermata, anzi dai dati positivi emersi, pare proprio godere di ottima salute. Questi ultimi sono stati presentati nel corso dell’Assemblea annuale di Acimit, Associazione dei costruttori italiani di macchinari per l’industria tessile, che ha avuto luogo lo scorso 1° luglio negli spazi di Villa Cavenago a Trezzo sull’Adda (MI).
I dati sulla produzione italiana
La produzione italiana ammonta ad un valore di 2.388 milioni di euro (+35% sul 2020 e +5% sul 2019), mentre le esportazioni totali sono state pari a 2.031 milioni di euro (+37% sul 2020 e +9% sul 2019).

Certamente, alcuni ostacoli da affrontare rimangono, come sottolinea Alessandro Zucchi, presidente Acimit: “Il 2022 rimane un anno pieno di incognite. Il conflitto russo-ucraino e il perdurare della pandemia rischiano seriamente di ritardare l’atteso consolidamento della crescita per le imprese del settore. La difficoltà nel reperimento delle materie prime e dei componenti condiziona negativamente la completa evasione degli ordini raccolti già nel 2021. Costi energetici in aumento e una dinamica inflattiva comune a molte commodities deprimono il clima di fiducia delle aziende. Tutto ciò rende il quadro previsivo per il settore nel suo complesso negativo. Saranno soprattutto i margini di redditività a essere erosi nel prossimo futuro”.

Il meccanotessile 4.0
La trasformazione digitale ha già portato numerose realtà del settore a rivisitare il processo produttivo: sempre più spesso si parla, ad esempio, di Internet of things per connettere l’ecosistema aziendale, di algoritmi, di machine learning applicati alla produzione, di manutenzione predittiva, di cloud per la gestione integrata dei vari reparti.

Il progetto Digital ready
L’Associazione infatti ha puntato sul progetto Digital ready, grazie al quale vengono certificate le macchine italiane che adottano un set comune di dati con lo scopo di facilitare l’integrazione con i sistemi operativi delle aziende clienti.

Il progetto Sustainable technologies e la Green label
Altro progetto finalizzato a coniugare efficienza produttiva e rispetto per l’ambiente è Sustainable technologies, che ha preso piede nel 2011 a livello associativo, per raccogliere l’impegno dei costruttori italiani di macchine tessili nel campo della sostenibilità.

Cuore del progetto è la Green label, certificazione verde dedicata ai macchinari tessili italiani che ne evidenzia le prestazioni energetiche e ambientali. Questa è stata sviluppata con Rina, ente di certificazione internazionale.

L’indagine di Rina Consulting sull’impatto ambientale positivo
L’indagine di Rina Consulting sull’evoluzione e sull’impatto della Green label negli ultimi anni, conferma che: le innovazioni tecnologiche che le aziende aderenti al progetto hanno apportato ai loro macchinari, possono solo che tradursi in benefici in termini di impatto ambientale, quali la riduzione delle emissioni di CO2 equivalente dei macchinari e in vantaggi economici per chi utilizza le macchine.

Nel 2021, è stato possibile quantificare in 204.598 tonnellate di CO2 equivalente le emissioni annue evitate, grazie alle migliorie fatte sui macchinari, corrispondenti alle emissioni di anidride carbonica generate da 36.864 automobili che percorrono mediamente 35mila km l’anno.

L’utilizzo di macchinari green labelled nel meccano-tessile ha permesso una riduzione fino all’84% dei consumi in termini di risparmio energetico.

Secondo l’unanime parere dei relatori presenti all’Assemblea di Acimit, che hanno riportato la propria esperienza nei processi di transizione ecologica delle loro imprese, il futuro del meccano-tessile italiano non può più prescindere da una tecnologia che offra soluzioni sostenibili che permettano anche di ridurre i costi di produzione.

 

Imperdibile infine dal prossimo 8 giugno fino al 14 giugno, presso la fiera Milano Rho, la 19esima edizione di Itma, vetrina internazionale per tante nuove soluzioni operative, dove ci sarà un’esposizione internazionale di macchine tessili.

 

https://www.canaleenergia.com/rubriche/transizione-ecologica/tessile-sostenibile-digitalizzazione-e-sostenibilita-al-centro-dellindustria-italiana-macchine-tessili/

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Nuove tecnologie per un’industria tessile ecosostenibile: quali sono e come funzionano

Quella dell’industria tessile è una filiera lunga e inquinante in tutti i molti passaggi che vanno dalla materia prima al prodotto finito. L’attenzione verso una moda più responsabile sta però crescendo, così come la produzione di tessuti sostenibili che possano sostituire quelli “tradizionali”

Tra le attività economiche che incidono maggiormente sulla sostenibilità ambientale, l’industria tessile è tra i primi posti insieme a quella petrolifera, che impiega fonti fossili per produrre energia. Dalla materia prima al prodotto finito, sono moltissimi i passaggi richiesti: ognuno di questi ha un impatto rilevante.

Di fronte a questo scenario, considerato che la produzione mondiale di indumenti è destinata a crescere del 63% entro il 2030, si dimostra necessario aderire ai progetti e alle proposte che le nuove tecnologie stanno avanzando in merito, attraverso una serie di interventi mirati e ragionati anche al cambiamento delle abitudini di noi esseri umani.

I capi di abbigliamento sono probabilmente il bene più comune che le persone acquistano nel mondo, e il numero medio di capi che un individuo acquista ogni anno è cresciuto drasticamente: una ricerca di McKinsey & Company mostra che il numero di capi prodotti annualmente, a partire dal 2000, è più che raddoppiato e che aveva superato i 100 miliardi di pezzi l’anno già nel 2014.

Tralasciando le condizioni di lavoro e di sfruttamento alle quali purtroppo ancora molto spesso sono sottoposti i lavoratori del settore, i problemi principali causati dall’industria tessile includono il consumo di risorse, l’inquinamento delle acque, l’inquinamento atmosferico e l’inquinamento derivante dalla produzione di rifiuti solidi. Se consideriamo il boom più recente della “fast fashion” (ovvero la “moda veloce”, che consente una disponibilità costante di nuovi stili a prezzi molto bassi), è scontato immaginare il forte aumento della quantità di indumenti prodotti, utilizzati e infine scartati.

I cittadini europei consumano ogni anno quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11 kg. Globalmente, ogni anno, circa 90 milioni di capi di abbigliamento finiscono nelle discariche. Gli indumenti usati possono essere esportati al di fuori dell’UE, ma per lo più vengono inceneriti o portati in discarica (87%). A livello mondiale, meno dell’1% degli indumenti viene riciclato come vestiario, in parte a causa di tecnologie inadeguate. Alcuni degli agenti inquinanti che finiscono nelle discariche includono: la filaccia, gli scarti delle fibre, i ritagli e gli imballaggi usati prodotti nella preparazione del tessuto; i fanghi prodotti dal trattamento delle acque di scarico; contenitori dei prodotti chimici e dei coloranti utilizzati nei processi di colorazione e finissaggio dei tessuti.

L’impatto della produzione e dei rifiuti tessili sull’ecosistema

Si calcola che l’industria tessile sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme.

Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2017 hanno generato circa 654 kg di emissioni di CO2 per persona. Nello specifico, l’inquinamento atmosferico prodotto dall’industria tessile include: ossidi di azoto e diossido di zolfo derivanti dalle fasi di produzione energetica; composti organici volatili (VOCs) prodotti nella fase di coating, asciugatura, colorazione, trattamento delle acque di scarico e stoccaggio; vapori di anilina, acido solfidrico, cloro e diossido di cloro prodotti nelle fasi di colorazione e decolorazione.

 

Abbigliamento, una filiera molto lunga e inquinante

Inoltre, ogni giorno, le fabbriche tessili rilasciano milioni di litri di acque reflue non trattate nelle fognature pubbliche che di fatto vengono scaricate nei fiumi e nei mari. Tendenzialmente vengono impiegati 95-400 litri di acqua per kg di tessuto a seconda del processo di lavorazione in corso e le acque reflue tessili ad oggi sono circa il 22% del volume totale generato da tutti i diversi tipi di industrie. Per questo motivo lo smaltimento delle acque reflue è divenuta una delle maggiori preoccupazioni ambientali negli ultimi decenni.

Il processo di colorazione delle fibre rappresenta il passaggio più inquinante, consumando più di 100 litri di acqua per chilogrammo di materiale trasformato. L’80% di questo volume viene scartato come acque reflue estremamente colorate, visto lo scarso assorbimento da parte delle fibre tessili. Si stima che ogni anno circa 105 tonnellate di coloranti vengano rilasciate nell’ambiente tramite i 200 miliardi di litri di acque reflue.

 

Le tinte sono composte da molecole che sono state studiate e scelte appositamente per garantire grande stabilità e resistenza. Questo implica che il colorante rappresenti un enorme problema nelle acque di scarico perché non facilmente degradabile: la maggior parte di queste tinte sono dette azotate perché posseggono un particolare legame chimico tra due atomi di azoto, solitamente non presente in natura e quindi particolarmente resistente alla degradazione. Quella dei capi di abbigliamento è una filiera molto lunga, nella quale l’indumento è trattato, impregnato, imbevuto, vaporizzato con i più svariati prodotti chimici: coloranti, pigmenti artificiali, formaldeide, nichel, ammoniaca, cloruro, nitrato, fosfato, solfato, metalli pesanti e altro ancora. Alcune fibre vengono trattate, per esempio, con il dimetilfumarato, un tipo di antimuffa usato per preservare i tessuti durante lunghi periodi di stoccaggio.

Non è un caso infatti che Rapex, il sistema di allerta rapido europeo per i prodotti di consumo pericolosi (esclusi quelli alimentari, farmaci e presidi medici), metta al primo posto della classifica per sostanze chimiche a rischio, proprio vestiti e capi di moda e che il 7-8% delle patologie dermatologiche, stando ai risultati di uno studio commissionato dalla Commissione UE – Chemical substances in textile products and allergic reactions – siano dovute ai vestiti che indossiamo. Quindi, oltre che per l’ambiente, l’abbigliamento che indossiamo ogni giorno è potenzialmente dannoso direttamente per la salute umana essendo contaminato da sostanze tossiche che interagiscono con il nostro organismo tramite il contatto prolungato con la pelle.

Inoltre, il lavaggio di indumenti sintetici è responsabile del rilascio del 35% di microplastiche primarie nell’ambiente marino. Un ciclo di lavaggio di soli capi sintetici produce fino a un milione di microfibre, tutte di dimensioni inferiori a 5 millimetri, il 40% non viene intercettato da nessun impianto e completa il suo viaggio solo in mare. Dai dati ottenuti con la ricerca A New Textiles Economy della fondazione Ellen MacArthur è emerso che ogni anno vengono scaricate in mare mezzo milione di tonnellate di microfibre, l’equivalente di cinquanta miliardi di bottiglie di plastica. Secondo una ricerca dell’University College of Dublin, su un carico da 6 kg, i tessuti misti cotone e poliestere rilasciano quasi 138 mila fibre, il poliestere circa 496 mila e l’acrilico 729 mila. Dall’impianto di depurazione poi, i frammenti potrebbero tornare all’uomo attraverso la catena alimentare. Sia tramite i fanghi di depurazione usati come fertilizzanti nei campi, sia attraverso il bioaccumulo in quegli organismi usati per l’alimentazione umana. Come detto in precedenza, una delle ipotesi sulla tossicità delle microplastiche è legata soprattutto alle sostanze nocive impiegate per la loro produzione ma anche ai contaminanti organici e metallici raccolti in ambiente e assorbiti sulla loro superficie. In questo modo le microplastiche potrebbero fungere da vettori per tali composti tossici, aumentando l’esposizione effettiva.

Una strategia per ridurre, ad esempio, le microfibre prodotte dei nostri lavaggi è fare un investimento in un prodotto tecnologico come la Cora Ball. Creata dal Rozalia Project for a Clean Ocean e finanziata in crowdfunding su Kickstarter, si tratta di una sfera che cattura le microfibre che vagano per il cestello dopo essersi staccate dai vestiti. Evitando che finiscano negli scarichi, riduce i residui dei capi sintetici del 26%. Un’altra soluzione è il sacco Guppy Friend: i vestiti vanno inseriti e lavati al suo interno. L’acqua passa attraverso le maglie del sacco, l’azione della lavatrice rimane efficace ma le microfibre vengono intercettate, per poi essere raccolte alla fine del bucato. Esiste anche la possibilità di inserire dei filtri per le microfibre sia all’interno che all’esterno della lavatrice, che garantiscono una protezione quasi totale.

Ulteriore strategia per ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile riguarda l’orientamento ecosostenibile della filiera, le cui potenzialità sono enormi, fino a rappresentare il 20% del fatturato del settore in Italia (4,2 miliardi). D’altra parte, già ora il 55% degli italiani è disposto a pagare di più per capi di abbigliamento eco-friendly realizzati con eco-tessuti. Negli ultimi anni, infatti, l’attenzione verso una moda più responsabile sta crescendo esponenzialmente, così come la produzione di tessuti sostenibili che possano sostituire quelli “tradizionali” e avere un minore impatto ambientale.

 

https://www.agendadigitale.eu/smart-city/nuove-tecnologie-per-unindustria-tessile-ecosostenibile-quali-sono-e-come-funzionano/

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Il tessile ha fatto la storia e resta uno dei pilastri dell’economia

“A questo punto, a costo di interrompere il filo del discorso, viene spontaneo un confronto tra il destino dell’Inghilterra e quello dell’Italia. L’Inghilterra si ritrovò tra le mani ottima lana quando (nel Medioevo) la lana era la materia prima più ricercata; (…). In contrasto l’Italia ebbe poca e grama lana nel Medioevo, pochissimo e gramissimo carbone nella Rivoluzione Industriale, e pochissimo e gramissimo petrolio nell’epoca corrente: in compenso ebbe sempre abbondanza di marmo (per i suoi monumenti)”.

Per parlare della storia del tessile potremmo cominciare da questo celebre brano del geniale “Allegro ma non troppo”, il saggio satirico ma scientifico a modo suo del grande economista italiano Carlo Maria Cipolla, che sorridendo insegna alcune grandi verità.

Il tessile è uno dei pilastri dell’industria moderna, tradizionalmente gli studiosi la indicano assieme all’invenzione delle fonderie e all’energia a vapore come i tre fattori della Rivoluzione industriale inglese. Ce n’è un quarto, ed è il dominio coloniale: noi europei amiamo pensare che lo sviluppo economico proceda da noi verso gli altri continenti, per cerchi concentrici successivi, convinti come siamo di abitare nel picco della civiltà; ma le cose sono un po’ più complicate.

Non troppo tempo fa, diciamo fino a tutto il XVII secolo, era l’India il principale polo dell’industria tessile: la produzione indiana di tessuti era la protagonista del commercio mondiale, in Asia, in Africa, e in Europa, che importava tessuti indiani, soprattutto di cotone. L’Inghilterra, peraltro, aveva un primato nei tessuti di lana, che erano i più usati dagli europei. Oggi, noi preferiamo il cotone, mentre usiamo la lana solo in inverno e per certi capi: l’espansione coloniale inglese in India ha a che fare con il controllo della materia prima, la stoffa, mentre la produzione del prodotto a maggior valore aggiunto, cioè il capo finito, venne gradualmente accentrata in Inghilterra, ed eventualmente riesportata in India e in tutto il mondo. Così si costruisce un impero, senza dimenticare il controllo dell’Egitto, l’altro grande produttore mondiale.
Anche la guerra civile americana non si capisce senza pensare all’importanza del cotone: e del passaggio da una semplice produzione di materia prima con manodopera schiavistica, base di una società statica e poco moderna, ad un’economia industriale in cui la materia prima potesse finalmente venir trasformata in prodotti finiti. Insomma, senza Lincoln non solo non si sarebbero liberati gli schiavi, ma non avremmo avuto le icone della moderna industria americana, i blue jeans, le tshirt…
Sì, qualcuno ricorderà che i primi blue jeans usavano una tela forse inventata a Genova, detta blu di Genova e poi blue jeans: ma quello che conta è il potenziale industriale per produrre e vendere, e l’idea vincente per trasformare un pezzo di stoffa in un capo finito, il cui valore è anche immateriale: quando compriamo, per esempio, un jeans Levi’s non compriamo solo una stoffa, ma il Far West, le cavalcate, Marlon Brando e James Dean: storia, leggenda, cinema e marketing, assieme a un sistema di produzione che permette al consumatore globale di trovare lo stesso identico paio di jeans a Milano, a Roma, a Tokyo, a Buenos Aires. Se no, 150 euro per un paio di brache da vaccaro in cotone rustico non si spiegano: e invece.
Diversa la storia italiana: perché noi un’industria tessile l’abbiamo avuta, e l’abbiamo, ma su scala infinitamente minore. Prima di tutto per lo scarso controllo delle materie prime: non molta e non eccellente la lana italiana, e niente cotone, né locale, né conquistato oltreoceano.
La tradizione italiana dell’artigianato di lusso ha avuto la seta: un’altra storia avventurosa, che anche stavolta ci ricorda come non sia vero che l’Europa sia il centro del mondo. La seta era dei cinesi: sin dall’antichità la vendevano fino in Italia, e parliamo addirittura degli antichi romani, che non avevano però il dominio di alcunché, e quindi acquistavano a carissimo prezzo, in oro, l’esotico prodotto giunto fino alle rive del Mediterraneo attraverso un complesso sistema di carovane e di intermediari, che riportavano indietro, ai cinesi, l’oro di quei buzzurri europei, gente che vestiva di lana grossa e pellicce, figuriamoci.
Qui c’è una delle prime storie di spionaggio industriale; sembra proprio accertato che due monaci cristiani e asiatici, giunti in pellegrinaggio a Costantinopoli, città piena di chiese e luoghi santi, abbiano rivelato il trucco dei bachi da seta a un imperatore cristiano: religione e affari, pellegrinaggi e favori politici. Non c’è da stupirsi che, tempo dopo, l’imperatore cinese abbia bandito i cristiani, considerati inaffidabili agenti stranieri. Ma intanto il baco da seta era arrivato, e l’Italia, dal Medioevo diventò il primo centro di produzione della seta. Attenzione: non diventi una potenza mondiale con la seta, al massimo fai una produzione limitata per clienti aristocratici anche stranieri, e questa, come sappiamo, è in effetti la tradizione italiana. Anche se le cose cambiano, e con l’invenzione della seta artificiale e lo sviluppo industriale dei paesi asiatici, la seta italiana è diventata poco più che un elegante relitto, e i marchi italiani si limitano, in gran parte, a porre il loro prestigioso marchio su tessuti di nuovo di provenienza orientale.
Geni e cialtroni, gli italiani, l’altra tradizione nazionale sta all’estremo opposto, nel riciclaggio dei cascami e degli avanzi.
Non si può negare che la parola “magliaro” ha un suo peso simbolico, letterario: non solo è stato per un certo periodo storico, diciamo il secondo dopoguerra, un mestiere identificato, a torto o a ragione, con gli emigranti italiani che raccoglievano e riciclavano in Germania, Svizzera, Francia avanzi e scarti, battendo i mercatini ambulanti. Un’identificazione, quella tra magliari e italiani, che abbiamo introiettato con senso di colpa: oggi che i magliari sono (quasi) spariti, il richiamo a “non fare i soliti magliari” risuona allarmato nei gruppi di turisti italiani all’estero, a scongiurare brutte figure e litigi inutili. Eppure, quella della rigenerazione dei tessuti, a partire dalle scorte sprecate e abbandonate dall’esercito americano dopo il 1945, ha una sua nobiltà, che è stata, per esempio, alla base della rinascita di un polo industriale di tutto rispetto come quello di Prato, che aveva alla base della sua filiera produttiva la raccolta su grande scala dei “cenci”, cioè gli abiti usati e gli scarti di lavorazione, ritrasformati in filo e in tessuto.
Oggi, il tessile italiano affronta sempre nuove trasformazioni: l’alta moda italiana non impiega che pochi tessuti “made in Italy”, il suo valore aggiunto è essenzialmente immateriale, design e prestigio della firma, che costituiscono comunque il vero valore aggiunto della moda italiana. Al tempo stesso, la delocalizzazione della produzione sembra oggi cominciare a incontrare le prime resistenze: l’elezione del protezionista Trump alla Casa Bianca ha qualcosa a che fare con il disagio dell’industria cotoniera americana, un tempo la prima del mondo, che da anni investe cifre considerevoli per campagne all’insegna del “compra americano”, cercando di convincere i consumatori a preferire il prodotto tessuto con cotone nazionale e confezionato negli Usa. In questa campagna, oltre ai richiami patriottici, si sono aggiunti anche argomenti più moderni e sofisticati: l’idea che oggi il tessuto di cotone americano da lavoratori meglio pagati e meglio protetti sindacalmente di quelli asiatici, mentre la coltivazione non impiegherebbe che in maniera molto più controllata pesticidi e altri inquinanti chimici: il prezzo maggiore, quindi, si giustificherebbe dal punto di vista etico ed ecologico.
In effetti, la sempre maggiore attenzione alla sostenibilità ecologica della produzione, in un mondo che i trasporti veloci hanno reso più piccolo, ma anche dove cominciano a scarseggiare acqua e suolo coltivabile, e salgono i livelli di anidride carbonica che impattano sul clima, porta a limitare lo spostamento non necessario di merci via nave o via aereo, e a porsi il problema degli scarti. Questo, dal lato della riduzione dell’inquinamento da trasporto, sta portando alla riscoperta di coltivazioni tessili italiane tradizionali e dimenticate, come la canapa. Dall’altro, quello della gestione rifiuti, i vecchi “cenciaioli” hanno di fronte a sé il nuovo business del recupero con nuove tecnologie degli scarti tessili, la roba che prima non si poteva nemmeno recuperare, e che finiva in discarica, dove ha un fortissimo potenziale inquinante. Ad oggi, solo il 12 per cento di questi scarti è avviato al riciclo, e questo comporta non solo uno spreco, ma un danno ambientale di prima grandezza. Una fibra tessile abbandonata nell’ambiente danneggia l’acqua, dove rilascia fosfati e nitrati, produce, se bruciata, quantità importanti di gas serra, può essere addirittura tossica. Un’industria verde, che chiuda il ciclo, e preservi la terra che all’inizio della filiera ha prodotto lana, lino, cotone, è la prospettiva di oggi.


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