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Shiraz – La città delle rose

Sì certo, state sentendo l’odore inebriante di fiori come la rosa ed il gelsomino, sentite un po’ di caldo… allora siete giunti con noi nella regione del Fars; questa regione a sud-ovest dell’Iran, è una delle culle della civiltà iranica ma pure di quella dell’intera umanità; inoltre, nei secoli, è stata il cuore della letteratura, della scienza e della cultura dell’Iran e pertanto abbiamo deciso di iniziare il nostro viaggio da essa. il capoluogo di provincia della regione del Fars, una sorta di capitale culturale dell’Iran. Shiraz è stata la capitale della Persia durante la dinastia Zand dal 1750 al 1794, mentre durante la dinastia Qajar la capitale fu trasferita a Teheran. Shiraz ha una popolazione di 1.980.006 abitanti ed è per dimensione la quinta del paese.

La città di Shiraz è situata nell’Iran centro-occidentale ed ha una altezza di 1486 metri dal livello del mare, è situata ai piedi delle catene montuose degli Zagros e dista 919 chilometri dalla capitale Teheran. È naturalmente una delle città più grandi dell’Iran con il suo milione e 700 mila di abitanti ed è soprattutto una delle più belle città dell’Oriente.La città prende posto nell’omonima pianura, cioè di Shiraz, un grande rettangolo di 40 chilometri per 10. Questa pianura ha una leggera pendenza da Ovest ad Est e ad Ovest è attraversata da sorgenti e ruscelli.

Ad est della piana vi è il lago salato di Maharlou che ha quasi 200 chilometri quadrati di estensione; tutta la pianura e circondata e sovrastata dalle montagne.Shiraz ha un clima abbastanza mite e stagioni ben distinguibili. La zona ha avuto un ruolo importante nella Storia dell’Iran da migliaia di anni fa, come dimostrano le tavolette ritrovate negli scavi inerenti alla civiltà degli Elamiti.Nel periodo Achemenide, la città era sulla via tra Susa, la capitale del regno e Persepolis e Pasargad, luogo di villeggiatura estivo e di celebrazione delle feste di corte.

Nel periodo Sasanide era nuovamente un centro che collegava città importanti come Bishabur, Gur e Estakhr. Con il suo clima mite e la sua posizione strategica particolare, era sempre vista con attenzione dalle dinastie reali persiane.

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Ecco 5 posti "must see" a Shiraz

1) Persepolis (Takht and Jamshid)

Tecnicamente questo posto è fuori dalla città di Shiraz ma li unirò in questo articolo. Non so come scrivere di questo posto per descriverne la magnificenza nella storia persiana. Persepolis è uno dei siti storici più preziosi e di valore dell’Iran. Ma perché?

Beh, Persepolis venne costruita durante il regno di Re Dariush, il suo nome in inglese era Darius ed era conosciuto in tutto l mondo per il suo contributo all’Impero Persiano. Anche oggi gli iraniani lo rispettano. Persepolis era in pratica la capitale dell’Impero Persiano, dove risiedeva e governava il re. È più di 125000 metri e ha molte sezioni diverse, alcune delle più importanti sono:

piccoli palazzi privati

la tesoreria reale

parapetto di protezione del castello

cancello, scale d’ingresso e terrazza

La costruzione di questo complesso durò più di 150 anni durante i quali centinaia di architetti lasciarono una loro traccia. A quanto sembra non esiste un altra opera architettonica così al mondo. Non c’è mai stata e mai ci sarà. Ecco perché sono così orgogliosa delle mie radici.

Persepolis era la capitale dell’Iran durante tutto il periodo Achemenide fino a che Alessandro il Macedone attaccò l’Iran e diede fuoco all’intera città e complesso. Da lì Persepolis non fu mai più la stessa. Le rovine restano ancora ma moltissime strutture sono rovinate.

Alcuni dei palazzi importanti di Persepolis sono:

  • Palazzo Apadana
  • Palazzo Tachr
  • Palazzo Hadish
  • Palazzo Shora

 

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2) Giardino Eram

I giardini Iraniani, a meno che non siano un palazzo o un complesso museale all’interno del giardino, non vale la pena visitarli in inverno. Il giardino Eram è uno splendido giardino a Shiraz ma non è bello solo in primavera ed estate. Grazie alla varietà di piante e vegetazione è bello in modo unico in ogni stagione, specialmente in primavera quando i fiori sbocciano. Nel giardino godetevi le splendide piante e i fiori. Fate moltissime foto esteticamente belle per Instagram. Godetevi il tempo e realizzate quanto tutto attorno a voi sia bello. E non toccate quelle piante di peperoncino così carine. Quando ero bambina le ho toccate perché erano carine e ne ho staccati alcuni da portarmi in hotel poi mi sono toccata gli occhi con la mano e mi sono bruciati per 2 ore filate mentre io piangevo. Ho reso la vita un inferno alla mia famiglia.

3) Hafeziye

È il luogo in cui riposa il famoso poeta persiano Hafiz. Le sue poesie sono conosciute in tutto il mondo dagli amanti della poesia. Hafiz era un poeta del XIV secolo ma ancora oggi tutte le sue poesie e le sue opere si trovano in quasi tutte le case persiane. Noi impariamo a memoria le sue poesie, le analizziamo, impariamo lezioni di vita, cerchiamo indizi e ci godiamo davvero le sue parole. Leggere Hafiz è uno dei rituali in molti ritrovi famigliari. La tomba di Hafiz è una delle più belle di sempre. Non si sa come descriverne l’energia e la santità. Ogni anno centinaia di turisti e locali visitano la sua tomba e leggono lì i suoi poemi. i persiani fanno una cosa, quando fanno un “niyat”, come un desiderio, aprono il libro di poesie di Hafiz cercando un segno riguardo al nostro desiderio o in pratica il destino. Hafiz ti guida sempre o ricevi un segno, qualcosa. Dipende da quanto credi nella sua poesia e nel potere delle sue parole.

la sua tomba e’ bella, si trova in un giardino di 2 ettari, con fiori e fontane tutto intorno. La tomba e il giardino all’inizio non c’erano, vennero fatti per lui 65 anni dopo la sua morte. È un posto bello e affascinante. Non dovreste davvero perdervelo, se andrete mai a Shiraz. E io credo davvero che dovreste andarci.

 

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4) Moschea Nasir ol molk

Venne costruita nel periodo Qajar e prese il nome dal re dell’epoca, “Nasir ol molk”. È conosciuta anche come la moschea rosa perché vennero usati molti mosaici rosa nei decori. È un splendida moschea .

La moschea è caratterizzata dalle ampie vetrate colorate della sala di preghiera invernale. Al mattino la luce del sole passando attraverso le vetrate inonda di luce colorata l’interno della sala con un effetto spettacolare. L’effetto risulta amplificato soprattutto nelle prime ore del mattino o nei mesi invernali quando l’altezza del sole è minore e i raggi penetrano sino nel fondo del salone. Le colonne interne sono decorate da piastrelle policrome.

All’interno vi è un Gav Cha o Pozzo delle mucche, si tratta di un pozzo dove in passato grazie alla forza di trazione delle mucche veniva sollevata l’acqua del pozzo.

La moschea presenta i tipici elementi che definiscono lo stile architettonico islamico-persiano (cinque entrate). Nella cultura popolare essa viene chiamata moschea rosaa causa del considerevole uso di questo colore per gli interni e nelle vetrate.

C’è un’atmosfera nei bazar, i prodotti vintage, l’odore delle erbe tradizionali che si spande nell’aria, i rumori della gente che ride e contratta. È davvero un’atmosfera positiva. Comunque, superando il concetto di bazar in sé, parliamo del gran bazar di Shiraz. È molto conosciuto a Shiraz e in Iran.

Ecco alcune informazioni tecniche su questo bazaar:

Fu costruito per ordine di Karim Khan e zand nel XVIII secolo

Ci sono voluti circa 20 anni per costruirlo tutto

Si trova vicino al centro di Shiraz

Il complesso del bazaar include dei bagni pubblici storici e una moschea

Il bazar, nonostante sia stato costruito molti anni fa, è ancora in buone condizioni

Il bazar fu descritto come il vero cuore di Shiraz in quanto tutto ciò che era legato agli affari e al commercio avveniva sui banchi di questo bazar

Anche dopo tutti questi anni il bazaar ha ancora molti negozi e molti affari avvengono qui

I negozi vendono principalmente tappeti persiani, gioielli tradizionali persiani e abiti tradizionali

 

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5) Porta del Corano (Darvazeh-e Quran) a Shiraz

La Porta del Corano o Darvazeh-e Quran è un’antica porta della città iraniana di Shiraz. Si trova all’ingresso nord-est della città, sulla strada per Marvdasht e Isfahan.

La porta fu costruita per la prima volta per ordine del sovrano della dinastia buide ‘Adhud ad-Dawla (X secolo d.C), per essere poi restaurata completamente durante la dinastia Zand (XVIII secolo d.C). In quell’occasione fu aggiunta in cima alla struttura una piccola stanza in cui furono conservate due copie del Sacro Corano  scritte a mano direttamente dal Sultano Ibrahim Bin Shahrukh Gurekani.

In questo modo i viaggiatori che passavano sotto la porta per entrare o uscire dalla città ricevevano la benedizione del Libro Sant.

Durante la dinastia Qajar (XIX secolo) la porta fu danneggiata da numerosi terremoti per essere poi restaurata da Mohammad Zaki Khan Nouri.

Nel 1936 la struttura fu quasi demolita in modo inspiegabile dall’allora sindaco della città e le due copie di Corano furono portate al Museo Pars di Shiraz, dove rimangono tutt’oggi.

La Porta del Corano fu però ricostruita nel 1949 ad opera di Hajj Hosein Igar, un noto mercante conosciuto con il soprannome di E’temad Al-Tejar.

https://erasmusu.com/it/erasmus-shiraz/blog-erasmus/le-maggiori-citta-turistiche-delliran-shiraz-pt-1-559495

https://iqna.ir/it/news/3485268/porta-del-corano-darvazeh-e-quran-a-shiraz

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Khoresh e Gheimeh

Gheimeh è lo stufato più popolare del Iran. Perchè tutte le famiglie lo preparano, almeno una volta alla settimana, facile da preparare ed è sempre un piacere a mangiarlo sia per pranzo che cena.

Ingredienti: 

300 g Carne Ovina o Vitello tagliata a pezzi piccoli da 2-3cm

2 cucchiai Ceci spezzati gialli

1 Cipolla

1-2 cucchiai Concentrato di pomodoro

3-4 Limoni secchi / succo di limone con zest

1 Patata

q.b. Burro Chiarificato

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Preparare limoni essicati

Versate acqua bollente sui limoni secchi, coprite la ciotola con un piattino. Lasciate limoni a mollo per qualche ora. devono ammorbidire perchè poi, dovranno cuocere per 40 minuti nello stufato.

Se non li avete, prendete il succo di 1 limone bio e il suo zest. lo aggungeremo al 15 minuti prima di finire la cottura.

Khoresh Gheime

 Tagliate a dadini le cipolle e soffriggete nel burro chiarificato

Appena diventano traslucenti, aggiungete curcuma, sale, pepe e infine la carne

 Fate rosolare la carne, dunque aggiungete ceci gialli spezzati e concentrato di pomodoro.

Mescolate tutto per qualche minuto e aggiungete acqua bollente fino a coprire tutti gli ingredienti. lasciate sobbollire a fuoco basso finche il carne diventa morbida.

Aggiungete i limoni assieme alla loro acqua e continuate cuocere per altri 40 minuti (SE usate i limoni, 15 minuti prima togliere il khoresh dal fuoco)

Nel frattempo prepariamo le patate fritte: sbucciate una patata e tagliatela a fettine; immergetela 10 minuti in acqua fredda (affinché perda un po’ d’amido), dopodiché asciugatela e friggetela.

Quando lo stufato assume un colore rosso oscuro, si addensa e la carne diventa tenera il Gheimeh è pronto!

Guarnite con patatine fritte.

 

p.s. quando servite Gheimeh, ricordate che i limoni secchi, vengono schiacciati con la forchetta o coltello così lasciano il sugo aspro cha secondo molti fa lo stufato ancora più buono (Iraniani adorano aspro ?). Se non siete fan del gusto aspro lasciatelo da parte.

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Il Gelato Persiano

Ingredienti:

2,5g di pistilli di zafferano

un pizzico di zucchero

30ml di acqua bollente

10g di pistacchi

250ml di latte intero

6 tuorli d’ Ouovo

135 di zucchero

250ml di panna liquida

10ml di acqua di rose

petali di rosa essiccati

Preparazione:

In un mortaio, pestare i pistilli di zafferano con un pizzico di zucchero e poi aggiungere l’acqua bollente e lasciare in ammollo.

Nel frattempo, tostare i pistacchi in un padella a fuoco basso per un minuto o due. Lasciare da parte.

A questo punto scaldare il latte a fuoco basso fino a quando non inizia a ribollire. Toglierlo dal fuoco e tenere da parte.

Mescolare insieme i tuorli d’uovo con lo zucchero fino ad ottenere una crema chiara e voluminosa.

Poco a poco, aggiungere il latte alle uova con lo zucchero, avendo cura di continuare a mescolare per non far impazzire la crema.

Dopo di che versare il tutto in una pentola capiente e far cuocere a fuoco molto basso per circa 8 minuti, fino a che la crema non si sia addensata, anche qui avendo cura di girarla sempre per evitare che impazzisca.

Una volta addensata, togliere la crema dal fuoco e aggiungere l’acqua con lo zafferano e l’acqua di rose.

Colare il tutto servendosi di un setaccio e lasciar raffreddare a temperatura ambiente.

Montare la panna liquida ed aggiungerla alla crema, dopo di che mettere tutto in frigorifero a raffreddare per almeno 30 minuti.

A questo punto, servendosi di una macchina per il gelato, mettere l’impasto nella macchina per ottenere il nostro bastani, aggiungendo i pistacchi tostati a metà del processo. Una volta pronto, mettere in congelatore per un paio d’ore.

Servire il bastani decorato con petali di rose essiccati e granella di pistacchio.

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LA TRADIZIONE DI SHAB-E-YALDA, LA NOTTE PIÙ LUNGA DELL’ANNO

La notte della Yalda, chiamata anche Shab-e Yalda, è una festa molto antica, che ha origine nel mitraismo, cioè la religione del dio persiano Mithra”. Nasce per celebrare la notte più lunga dell’anno: Yalda, infatti, vuol dire “nascita”, mentre Shab “notte”, cioè quando l’oscurità viene sconfitta dalla luce e si va verso giornate sempre più lunghe. Si tratta di un vero e proprio rito: per questa occasione l’usanza vuole che ci si riunisca tutti insieme nel tardo pomeriggio, seduti su materassi e cuscini intorno al korsì, il tipico tavolo basso persiano, di circa 40 centimetri, con i carboni caldi sotto”. Poi, durante le festa è tradizione sorseggiare il tè leggendo le poesie di Hafez, “il più grande poeta iraniano che sia mai esistito, tant’è che in Iran non c’è casa dove non sia presente un suo libro, spesso vicino al Corano, talmente è ritenuto sacro”. E poi, ovviamente, si mangia fino a notte fonda. Infatti, come aggiunge Sabrina della Comunità Iraniana di Firenze, “la cosa importante di questa notte non è la cena, ma quello che si continua a mangiare dopo, tutta notte, fino la mattina leggendo le poesie e raccontandosi storie. Ricordiamo, infatti, che un tempo non si conoscevano le ragioni per cui le giornate erano più corte, per cui si aveva paura del buio e stare insieme fino al mattino era un modo per trascorrere meglio la notte più lunga di tutte”. Insomma, ennesima prova di quanto si tratti di una festa molto antica.

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CIBI E PIATTI DELLA NOTTE DI YALDA

Durante la notte di Yalda, mentre il tempo viene scandito dalla lettura delle poesie di Hafez, si mangia di continuo. A non mancare mai sono semi tostati di zucca, frutta secca e frutta fresca, come melograno, mele, uva, cachi, prugne, arance e anguria. “Melograno e anguria simboleggiano l’abbondanza, il ciclo della vita quindi la rinascita. Yalda, infatti, soprattutto in passato era anche un’occasione per celebrare la fine della stagione dei raccolti autunnali e pregare per la prosperità dell’anno successivo” ci spiega Sabrina. “E poi il rosso è il colore dominante: per noi è il simbolo della ricchezza e della salute, per questo si cerca di consumare più piatti possibile di questo colore, sempre come buon auspicio” continua Massumeh Dehestani, amica di Mohsen. “Anche perché il senso della festa, oltre allo stare insieme, è proprio quello di portare fortuna al nuovo anno, con la vittoria della luce sulle tenebre”. Ma in realtà, come tutto ciò che è tradizione, non segue regole precise: infatti, c’è chi collega il potere magico di questa notte non solo a cibi di colore rosso, ma anche ad altri alimenti. Tutti d’accordo, però, sono sulla presenza del riso, ingrediente principe della cucina iraniana, che si prepara in vari modi: c’è il Baghali Polo con fave; il Sabzi Polo, con pesce e verdure; o ancora il Chelow kabab, una specie di kebab. Spesso, al riso, così come in altre pietanze, viene aggiunto un po’ di zafferano, di cui come forse già saprete, l’Iran è uno dei maggiori produttori.

La notte di Yalda si conclude alle prime luci del mattino, con un dolce a base di riso e zafferano, i due ingredienti simbolici per eccellenza. E ricordate: “in generale la cucina iraniana è molto raffinata e curata nei dettagli, tant’è che Napoleone quando aveva ospiti cucinava francese o persiano” conclude Mohsen.

Chissà se quest’anno si potrà festeggiare la notte di Yalda, anche con pochi intimi. In alternativa, per riunirsi con i propri cari, bisognerà aspettare il 21 marzo, quando con l’inizio della primavera, in Iran si festeggia Nowrouz, cioè il Capodanno.

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Dieta Mediterranea: il benessere in tavola

La dieta mediterranea dal 2010 è patrimonio dell’Unesco. Le motivazioni di tale riconoscimento sono le seguenti: “questo semplice e frugale modo di consumare i pasti ha favorito nel tempo i contatti interculturali e la convivialità, dando vita a un corpus formidabile di saperi, costumi sociali e celebrazioni tradizionali di molte popolazioni del mediterraneo”.

Quella che viene uniformata sotto la definizione di dieta mediterranea non è in realtà un modello alimentare unitario e coerente. In realtà, non è difficile constatare che anche in molte comunità costiere del Tirreno e dello Jonio il consumo di carni bovine e suine (quest’ultime anche sotto forma di salumi e insaccati), di latticini e di formaggi in genere, sia nettamente prevalente rispetto a quello di pesce. Eppure quest’ultimo, specialmente azzurro, ricco di grassi omega 3, si reperisce quotidianamente a prezzi senz’altro abbordabili. Quello che Ancel Keys ha definito come dieta mediterranea, è stato abbandonato come modello alimentare e non è stato mai praticato come modello unitario. Il cibo identitario dei poveri come ci ricorda Vito Teti era pane nero, erbe selvatiche, cibo agricolo. Il cibo “meridiano” è il cibo del mediterraneo è la cultura alimentare del meridione è il cibo identitario. Il cibo meridiano è cosa mangi, come mangi e con chi mangi. Il motto “vivi da ricco, e mangia da povero” è affascinante e in un certo senso è valido, ma bisogna riproporlo come modello alimentare del futuro perché quello che conta è origine e qualità e la qualità è solo il cibo agricolo biologico, riducendo la quantità.

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I temi della prevenzione sono scomparsi e non trovano spazio nell’agenda politica sanitaria. L’allarme ambientale derivante da deforestazione, effetto serra, inquinamento di acqua, di aria, di suolo e di cibo, oltre a minacciare la sopravvivenza della terra, minacciano tutti noi. I fattori nocivi diffusi nell’ambiente sono la causa principale insieme al cibo delle malattie tumorali. Basti pensare che quotidianamente vengono immessi  nell’ambiente circa centomila composti chimici. Li troviamo nell’aria, nell’acqua, nei suoli, nel cibo. L’attuale “sviluppo” economico non è compatibile con la tutela dell’ambiente e della salute. Evitare le malattie praticare la prevenzione non è funzionale al mercato, sicché le risorse che potrebbero andare in educazione e prevenzione, in ricerca e studio, trovano ben pochi canali e consumatori sempre meno competenti e responsabili in fatto di cibo. Ci ammaliamo sempre di più, e compriamo sempre più farmaci. In Italia il consumo di farmaci è cresciuto dal 1999 al 2007 del 13%, in Francia è sceso del 16%. Ogni mese spendiamo un miliardo di euro per farmaci. Noi medici dovremmo dialogare di più, prescrivere esami quando vi è un effettivo bisogno e ridurre il consumo di farmaci. La medicina dovrebbe  essere sobria con meno eccessi rispettosa del cittadino con più ascolto è uguale per tutti con risorse diagnosi e cure uguali per tutti in tutta Italia

Gli unici alimenti che accumunano le popolazioni del bacino del mediterraneo sono l’olio d’oliva e il grano, altro è contaminazione o derivante dall’emigrazione ( pomodori, patate…). La dieta mediterranea, quella praticata, non quella teorizzata è legata a abitudini alimentari diverse e contraddittorie, alcune figlie della fame altre dell’abbondanza.

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La produzione del cibo è passata da un trattamento naturale ad uno tecnico-industriale in terreni agricoli sempre più martoriati, cementificati, inondati da chimica e sempre più a contatto con rifiuti tossici. Il cibo sta perdendo il suo valore simbolico di socializzazione, di festa, di incontro di amicizia per ridursi ad elemento di nutrizione non salutare o di avanspettacolo televisivo. Ippocrate scriveva ”un medico deve sapere che cos’è un uomo in rapporto a ciò che mangia e a ciò che beve”, e ancora “il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo”. Il rapporto tra stili di vita alimentari e salute ha basi solide. La tutela della salute per noi medici dovrebbe essere un fine e non può diventare una vetrina, un mezzo per apparire per esporre le nostre medaglie da primi della classe. Lavorare insieme ai cittadini per una battaglia collettiva in difesa del diritto alla salute, essere accanto all’altro a chi soffre e non sopra l’altro, o addirittura altrove.

Oggi non è l’uomo a fare la dieta è la dieta è fare l’uomo  Non siamo noi a mangiare il cibo ma il cibo a mangiare noi. Per i greci la dieta, diaìta, significava stili di vita per noi vittime della religione del corpo il Dio di questa nuova religione è l’immagine del corpo-maschio disciplinato nel suo appetito, obbligato a diete perpetue ridotto ad una compattezza di un fascio di muscoli di nervi ed ossa L’attenzione salutista del proprio corpo bilancia il culto dell’abbondanza alimentare; la dieta è girovita, riduzione di calorie, peso e misure, con il rischio di disordini alimentari: eccessivo uso di proteine, depressioni, frustrazioni. Abbiamo i consumatori di cibo chic che seguono i dettami dei tanti masterchef di turno che dilagano in televisione. Loro devono stupirti con la rivisitazione del piatto con la fusion modaiola con la cucina d’avanspettacolo il piatto  è presentazione. Bollano come maiali sfigati i Nandi di turno sorpresi a fare la scarpetta nella teglia unta dove la Sora Lella ha preparato l’amatriciana. Poi vi sono quelli che ingurgitano tutto, mangiano così tanto fino al punto che non possono più mangiare nulla. Il loro rapporto con il cibo soprattutto nei momenti festivi è una mescolanza di processioni con indigestioni, di balli con sballi alimentari. L’attenzione al mangiar bene e al mangiar meno non deve essere liquidata come la mania di chi vuole perdere qualche chilo prima dell’estate. Stiamo parlando di salute e di una scelta vitale per la salute e per la sopravvivenza di intere fasce di popolazione.

La globalizzazione ha sostituito però la cucina tradizionale povera con una omologazione del gusto facendoci perdere sapori, memoria, tradizioni e sostenibilità. Il cibo sta perdendo il suo valore simbolico di socializzazione, di festa, di incontro di amicizia per ridursi ad elemento di nutrizione non salutare o di avanspettacolo televisivo. Ma il cibo dovrebbe essere buono, sostenibile per l’ambiente, del territorio e a km zero.

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L’industria agroalimentare è una fabbrica di cibo che con una catena di montaggio controlla tutto dal seme al supermercato. Il cibo, vettore di molti diritti, tra cui il diritto alla salute, è diventato soltanto merce.  La produzione di cibo è passata da un cibo agricolo sano e naturale ad uno tecnico-industriale con l’immissione della chimica nel comparto alimentare. Per il mercato della sanità è meglio curare che prevenire. Il mercato continua a produrre cibo in eccesso produciamo cibo per 12 miliardi di persone ma i viventi sono 7 miliardi Il mercato della salute propone rimedi per l’obesità, il diabete, i disturbi cardiocircolatori in cui hanno un peso determinante  i danni da cibo altamente industrializzato  e quelli di uno stile di vita sempre più sedentario.  In Italia vi sono sette supercentrali d’acquisto che aggregano 21 catene della grande distribuzione l’80% del mercato appiattendo la contrattazione a danno di produttori e consumatori.

“Un consumo massiccio di carne rossa può aumentare del 43% il rischio di contrarre alcuni tipi di tumore(Fonte:World Cancer Research Fund,2011)” L’educazione del cittadino ad una alimentazione buona, pulita  e giusta è anche educazione al rispetto dell’ambiente ,delle risorse della terra e della vita intera. Una bistecca richiede il consumo di 2600 litri di acqua. Il 30% della superficie agricola del pianeta oggi è occupato da coltivazioni destinate alla produzione zootecnica ottenuta mediante la deforestazione di terreni per fare spazio a cereali e leguminose tra cui mais, soia oppure pascoli. La produzione di carne incide nell’18% dell’effetto serra per l’emissione carbonica, per il trasporto degli animali e per la distribuzione della carne. Gli animali sono trattati come macchine per la produzione di cibo vivono pochi anni o nel caso dei polli solo poche settimane. E una volta macellati sono smaltiti come scarti industriali. Ma gli allevamenti possono anche essere estensivi in cui gli animali si nutrono di erba, fieno, cereali prodotti localmente nel pieno rispetto dell’ambiente, con allevatori che li trattano con rispetto. L’educazione alimentare e con essa la conoscenza è alla base della prevenzione  delle malattie croniche. Un investimento e non uno spreco La difesa della salute della madre terra è difesa della nostra salute. Il consumo responsabile significa cominciare a leggere l’etichetta e interessarsi della provenienza del cibo. Gli studi epidemiologici negli ultimi anni hanno dimostrato che più ci avviciniamo allo stile dell’alimentazione mediterranea tradizionale, dove troviamo cereali integrali, legumi, verdura, frutta, noci, nocciole, mandorle, olio d’oliva, e meno ci ammaliamo di infarto, ictus, cancro, Alzheimer, malattie infiammatorie. Gli studi sono molto chiari a riguardo: lo stile mediterraneo è protettivo nei confronti delle malattie croniche del nostro tempo».

Obesità, diabete, malattie cardiovascolari, tumori, morbo di Alzheimer. Oggi il cibo sulle nostre tavole può voler dire salute, oppure no.  La dieta mediterranea  è una filosofia, un modo di essere, è uno stile di vita, è equilibrio ambientale, cibo sano, variato e senza eccessi. Non si tratta di nutrizionismo, ma di ripercorrere la saggezza di un territorio. Una saggezza che si può applicare ovunque, riproporre, adattare a qualsiasi paniere di ingredienti locali, ingredienti di cui dovremmo conoscere la provenienza. E’ il cibo a filiera corta, è il cibo del territorio è il cibo identitario è il cibo dei piccoli produttori. Ma esiste ancora ?

La risoluzione dell’UNESCO, che ha riconosciuto il valore immateriale della dieta mediterranea, ha contribuito a spostare l’attenzione dai singoli alimenti ai comportamenti che vanno analizzati senza incorrere nella retorica della riscoperta, della classicità o della naturalità. Ma anche nel cibo, il Sud ha dimostrato una sudditanza passivamente accettata anche al cibo globale senza alcuna voglia di riscatto, una popolazione che non ha creduto in sé stessa. In Italia purtroppo si è assistito a un deciso allontanamento dalla tradizionale Dieta Mediterranea Italiana di riferimento, con aumento delle patologie cronico degenerative non trasmissibili legate allo stile di vita sedentario, ma soprattutto alle abitudini alimentari sbagliate, con consumi elevati di cibo di bassa qualità che oscilla tra grassi saturi e cereali raffinati.

La dieta mediterranea non è privazione, è misura, è regola, socialità, convivialità privilegiando i prodotti della terra; il trittico: frumento, olio, verdure e legumi. Frutta con guscio nocciole, pistacchi, mandorle, noci (elementi ricchi di omega 3) ;cereali, legumi, olio d’oliva, pane, pasta pesce due volte a settimana carne una volta a settimana e anche meno se proveniente da allevamenti intensivi. Cibo che viene dalla terra, da quello che noi abbiamo ulivo, olio; vite; frumento, pane e pasta; mare, pesce azzurro. I grassi acidi insaturi svolgono un’ importante azione di riequilibrio ed antiinfammatoria. I carboidrati non raffinati e quindi integrali sono ricchi di polifenoli possedendo azione antiossidante. Buona parte delle verdure oltre alle vitamine e ai sali minerali contengono sostanze come l’ossido nitrico che è fondamentale nella regolazione della pressione. Le fibre vegetali presenti nella crusca accelerano la motilità intestinale, liberando l’organismo dalle sostanze tossiche. L’ olio extra vergine d’oliva, ricco di polifenoli, aiuta a proteggere le membrane cellulari dai danni ossidativi provocati dai pericolosissimi radicali liberi.

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L’etichetta che peraltro non leggiamo aiuta poco. È il caso dei prodotti etichettati come integrali e che costano più degli altri: pane, pasta, fette biscottate, crackers, prodotti da forno, biscotti e dolci. La maggior parte di essi è prodotta con farina raffinata industrialmente (la cosiddetta 00) a cui viene aggiunta una crusca devitalizzata e finemente rimacinata, ossia un residuo della lavorazione di raffinazione. Ad esempio il “non pane integrale” che si trova in ogni supermercato, contrariamente al pane integrale ha un colore chiaro da farina raffinata inframmezzato da punti scuri (la crusca macinata riaggiunta).

La cittadinanza e il cibo sono stati privati di una storia millenaria ormai siamo alla negazione di quel legame stretto tra gusto, sapori, bontà e diritto al cibo sano naturale che sono alla base della tradizione popolare e della salute. Il cibo è un diritto e ha un valore, non esiste soltanto l’economia esiste anche la tutela della salute esiste anche l’etica pubblica esiste la tutela del territorio, la bellezza del paesaggio, e quindi dovrebbe esistere anche il consumo responsabile. Un conto è assaggiare ogni tanto i prodotti animali e caseari della tradizione un conto è farne un uso quotidiano, dimenticando che quei prodotti si mangiavano nelle festività. eccessi. Ecco: non si tratta di nutrizionismo, ma di ripercorrere la saggezza e la cultura di un territorio. Una saggezza che si può applicare ovunque, riproporre, adattare a qualsiasi paniere di ingredienti locali.  La provenienza, l’appartenenza, l’identità delle persone sono riconoscibili da quello che mangiano e da come trattiamo il cibo. Sulla validità scientifica, ecologica e medica di questo modello alimentare non vi sono dubbi il vero problema che in molti casi il cibo che dovremmo consumare è industriale e non tiene conto di provenienza e origine del cibo.

Il Codice Europeo contro il Cancro, si basa su tre suggerimenti:

mangia cereali integrali, legumi, verdura e frutta(la frutta zuccherina va invece ridotta se il tumore è già conclamato, in quanto gli zuccheri alimentano la cellula tumorale)

limita i cibi ad alto contenuto calorico(cibi con alto contenuto di zuccheri e grassi) ed evita le bevande zuccherate.

evita la carne conservata; limita la carne rossa e i cibi ad alto contenuto di sale.

E’ bene evitare i cibi raffinati e i grassi, oltre ad alcuni metodi di cottura, come la brace e la frittura.

” Si stima che il 42% di tutti i casi di cancro e quasi la metà di tutti i decessi per cancro negli Stati Uniti nel 2014 siano attribuibili a fattori di rischio valutati, molti dei quali potrebbero essere stati mitigati da efficaci strategie preventive “Se questa fosse una pillola, l’articolo verrebbe intonacato sulla prima pagina di ogni giornale e tutti noi saremo incaricati di prenderlo indipendentemente da quanto costi. Ma non è una pillola. È uno stile di vita sano, libero e dal quale nessuno può fare profitti. Quindi, possiamo dimenticarcene e proviamo a salvare noi e chi ci sta a cuore con il cibo da agricoltura sana.

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Storia 5 cose che (forse) non sai sul cibo in scatola

Dai contenitori in legno dell’antichità, alle bottiglie di vetro, ai barattoli di latta: ecco come ci siamo ingegnati nei secoli per conservare il cibo a lungo.

Barattoli di vetro, tubetti di alluminio, lattine, scatolette e altri contenitori di varia natura. Dai tempi più antichi, l’uomo si è sempre ingegnato per mantenere inalterate le proprietà degli alimenti per lungo tempo. Risultato? Il cibo in scatola che tuttora troneggia nei supermercati: ecco la sua storia in cinque curiosità.

1 – NELL’ANTICA ROMA. Già i nostri antenati avevano escogitato vari escamotage utili a conservare il cibo. La prima cosa che notarono era che i fattori di deterioramento degli alimenti erano aria e umidità. Così fecero dei tentativi di conservazione usando pelli e ossa animali, all’interno delle quali, si scoprì, il midollo rimaneva commestibile a lungo. Con lo sviluppo della civiltà urbana si passò all’uso di contenitori in legno o terracotta, in cui venivano inseriti frutta, legumi essiccati e verdura, riposti poi in ambienti asciutti. Per olio e vino si ricorreva ad anfore e giare chiuse con tappi di legno avvolti da stoffe. A queste soluzioni, diffusissime nell’antica Roma, si affiancarono espedienti come la salagione, l’affumicatura e il congelamento (già diffusi tra cinesi ed egizi), utili a rinviare la scadenza degli alimenti.

2 – IL CIBO VA IN BOTTIGLIA.  Le antiche soluzioni per conservare il cibo rimasero in auge per tutto il Medioevo e oltre, ma nel frattempo si registrò la nascita delle moderne bottiglie (grazie soprattutto ai vetrai veneziani e inglesi), dotate a partire dal XVIII secolo di robusti tappi di sughero che aprirono una nuova era per il mondo dei vini. Nel 1810, il pasticcere francese Nicolas Appert realizzò il suo “cibo in bottiglia”, aggiudicandosi la vittoria in un concorso lanciato da Napoleone il cui premio era destinato a chi avesse ideato un sistema per conservare i cibi dei soldati impegnati in guerra. Appert vinse grazie a un metodo – detto da allora “appertizzazione” – basato sull’uso di una bottiglia di vetro con tappo a chiusura ermetica. Inserendo del cibo al suo interno (fino all’orlo, per eliminare l’aria), avvolgendola in un panno e immergendola per ore in acqua bollente (affinché gli ingredienti ultimassero la cottura), ottenne un alimento in grado di conservarsi a lungo. Il pasticciere, ovviamente, non sapeva che erano l’alta temperatura di cottura e la chiusura ermetica che impedivano il proliferare dei germi: il ruolo dei microrganismi nel processo di decomposizione sarà scoperto mezzo secolo più tardi da Louis Pasteur.

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3 – IL PASTO DEI SOLDATI IN GUERRA. Fu l’imprenditore britannico Peter Durand, nel 1812, a usare, al posto delle bottiglie, dei barattoli realizzati con leggeri fogli di stagno. Questa strada fu battuta da altri due britannici, Bryan Donkin e John Hall, che nel 1813, dopo aver acquisito il brevetto di Durand, avviarono la prima produzione industriale di cibo in scatola (si cominciò con le conserve per poi passare a carni e minestre), non troppo diverso da quello esposto oggi nei supermercati. L’uso di cibi inscatolati cominciò a diffondersi con la Guerra di Crimea (1853-1856), quando iniziarono a rappresentare un valido sostegno per i soldati. Durante la Guerra civile americana (1861-1865), l’usanza prese piede anche Oltreoceano. Parallelamente furono elaborati i primi apriscatole e nel 1866 vide la luce la cosiddetta “apertura a chiavetta” (per la quale un bastoncino metallico viene fissato al coperchio della scatoletta per “srotolarlo” lentamente).

4 – SCATOLETTE PER TUTTI I GUSTI. Attorno 1850, prendendo spunto dai tubetti di metallo per vernici, l’italiano Cesare Balena lanciò la pasta d’acciughe in tubetto. Il cibo in latta – o “banda stagnata” – conobbe ulteriori evoluzioni con l’imprenditore Francesco Cirio, che all’Esposizione Universale di Parigi (1889) presentò i suoi pomodori in scatola. Nel 1881 Pietro Sada spopolò grazie alla carne bollita in scatoletta (perfezionata nel 1923 con l’aggiunta di gelatina). Nel corso del Novecento, l’industria conserviera si è espansa, invadendo il mercato con scatolette d’ogni forma: basse e rettangolari (tipiche delle sardine), cilindriche (usate per legumi, pelati e zuppe) e tonde (destinate in prevalenza a tonno e cibo per animali). Nel campo delle bevande, si aggiunse nel 1935 la lattina per lanciata dall’azienda americana Gottfried Krueger Brewing.

5 – SPACE FOOD IN ORBITA. Gli alimenti inscatolati hanno conosciuto il loro definitivo boom dal secondo dopoguerra. Nel corso dei decenni seguenti, pur non cambiando nel loro aspetto essenziale, i contenitori hanno subìto varie migliorie sia all’interno, con rivestimenti utili a non alterare i cibi, sia all’esterno, con l’adozione di coloratissime etichette e di aperture “a strappo”. Il cibo in scatola ha quindi continuato ad accompagnarci anche nel nuovo millennio, sbarcando persino nello Spazio (si parla in proposito di “space food”), con tubetti ripieni di paste di vario genere, alimenti sottovuoto e versioni a prova di gravità ridotta delle intramontabili scatolette.

https://www.focus.it/cultura/storia/5-cose-da-sapere-cibo-in-scatola

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Come l’industria alimentare ha trasformato il cibo che mangiamo

Nell’ultimo secolo abbiamo assistito ad una evoluzione alimentare e contemporaneamente a un declino, in quanto il sistema ha puntato tutto su quantità e prezzo. Cioè a produrre la massima quantità possibile al prezzo più basso possibile, ignorando gli effetti disastrosi che questo avrebbe potuto causare sulla qualità e il profilo nutrizionale degli alimenti. E sulla nostra salute. In questo articolo parleremo delle differenze nutrizionali tra cibo industriale e pre-industriale prendendo in considerazione quattro alimenti che mangiamo tutti i giorni o quasi: la carne di pollo, il pomodoro, la pasta, la pizza.

Cibo industriale VS artigianale: il pollo

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Uno studio del 2010, pubblicato su varie riviste scientifiche tra cui Public Health Nutrition dell’Università di Cambridge, presenta una analisi del pollo dal punto di vista del profilo nutrizionale e dal punto di vista dell’evoluzione storica nel metodo di allevamento. Se guardiamo alla tabella, appare inconfutabile un trend peggiorativo riguardo i contenuti di grassi e di proteine del pollo oggi in commercio. Da fine ‘800 ad oggi si registra un aumento enorme nel contenuto di grasso. Ne troviamo infatti tra il 2 e il 4% alla fine dell’800, poi aumenta fino al 23% di oggi. Parallelamente il contenuto di proteine cala. Una volta il contenuto era costantemente sopra il 20% e ora invece siamo nettamente al di sotto (16%). Il contenuto di calorie è passato dalle 110-120 Kcal per etto dei polli di fine ‘800 alle 270 calorie del pollo di oggi.

Se poi guardiamo la tabella 2 dello studio, che analizza il profilo di grassi omega-6 e omega-3, vediamo come il grasso omega-6 è drasticamente aumentato anche solo rispetto ai polli degli anni 70 del secolo scorso, passando da un 14% circa ad un 20-28% attuali. Viceversa il contenuto di grassi omega-3, i grassi buoni antinfiammatori, è diminuito in maniera pesante. Di oltre un decimo rispetto a quello degli anni 70. Agli inizi del secolo scorso un pollo impiegava in media 16 settimane per raggiungere il peso di 1 chilo e mezzo, oggi impiega un terzo del tempo (5-6 settimane) e viene macellato quando non ha ancora raggiunto nemmeno la pubertà. Oggi un pollo in allevamento intensivo può essere pronto per la macellazione in meno di 6 settimane. Una gallina deponeva in media circa 90 uova l’anno negli anni ’30, oggi ne produce facilmente almeno 250.

Cibo industriale VS artigianale: il pomodoro

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Se confrontassimo un pomodoro degli anni ’70 e uno di oggi, apparentemente non noteremmo grosse differenze, oltre al fatto che quello di oggi è un po’ più grosso e forse un po’ più bello a vedersi. Se potessimo assaggiarli entrambi, però, ci accorgeremmo subito che quello di oggi ha un sapore molto più “diluito”. Dire che il pomodoro di oggi non sa più di niente non ha solo a che vedere con la bontà, ma riflette un gravissimo problema nutrizionale.

Il pomodoro che non sa di nulla è un cibo industriale impoverito di vitamine, minerali e sostanze antiossidanti che sono appunto gli elementi che conferiscono al pomodoro, fra le altre cose, il suo sapore. E questo significa non solo che il pomodoro di oggi è meno buono, ma che per avere la stessa quantità di vitamina C o di licopene (il caratteristico antiossidante dei pomodori) che cent’anni fa ottenevamo mangiando un pomodoro, oggi bisogna consumarne forse due o tre.

Infatti, maggiore è la resa per ettaro nei campi (agricoltura intensiva industriale) e minore sarà il contenuto di licopene e vitamina C. Alla pianta infatti servirebbe un terreno non impoverito di sostanza organica e un lasso di tempo più lungo per conferire al frutto un buon contenuto di vitamine, minerali e antiossidanti. Con l’agricoltura intensiva invece si punta a ridurre i tempi di maturazione della pianta e si impoveriscono i terreni con forte utilizzo di sostanze chimiche di sintesi come fertilizzanti, pesticidi, fungicidi ecc. L’agricoltura industriale raccoglie i frutti ancora in parte acerbi, anche per esigenze di logistica e trasporto delle merci nelle lunghe distanze (se raccogliessimo il frutto quando è maturo, arriverebbe nei supermercati “troppo” maturo e non sarebbe desiderabile per il consumatore).

In agricoltura l’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi impoverisce il suolo. Il fertilizzante di sintesi, infatti, pur fornendo azoto e facendo crescere la pianta più in fretta, non ha nulla a che vedere con un suolo naturalmente fertile in cui la pianta trova anche molte altre sostanze organiche. E quando la pianta è troppo “coccolata” (ovvero protetta da sbalzi climatici, insetti ecc. come avviene ad esempio nelle produzioni in serra) non ha più bisogno di produrre quei fitocomposti come i polifenoli, il licopene ecc. che sono delle difese per la pianta e anche per noi: ci aiutano infatti nella prevenzione delle malattie.

Cibo industriale vs artigianale: la pasta

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Anche per la pasta possiamo registrare differenze significative tra un prodotto industriale e uno artigianale o più tradizionale. La cottura del grano e dell’amido in generale comporta la formazione di sostanze tossiche come la furosina e gli AGEs (prodotti avanzati della glicazione). Questo è un problema alimentare di cui quasi nessuno parla in Italia, ma che è in realtà addirittura normato e disciplinato per legge, purtroppo al momento solo per la produzione dei formaggi. Vediamo dunque più nel dettaglio questo problema.

La pasta secca, al contrario della pasta fresca e dei cereali in chicco, deve essere appunto essiccata prima di diventare commestibile. Nel processo industriale dell’essiccazione la pasta perde acqua e concentra la sua densità nutrizionale. Il trattamento di essiccazione ad altissime temperature tuttavia cambia il valore nutrizionale del frumento, cosa che suscita qualche perplessità tra gli esperti. I sistemi di essiccazione industriali (detti HTST e VHTS) permettono di raggiungere temperature molto elevate e di ridurre i tempi di lavorazione/essiccazione, con notevole risparmio sui costi. In commercio troviamo paste essiccate in poche ore ad alte temperature, ma anche pasta essiccata lentamente in tempi lunghi e con temperature più basse.

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La furosina (ε-furoilmetil-lisina) è una sostanza tossica che deriva dalla unione tra una molecola di glucosio e un gruppo amminico delle proteine contenute nelle farine. Si forma nella fase terminale della lavorazione della pasta secca, quando la percentuale di acqua scende fino al 12%. L’essiccazione ad alte temperature e bassi valori di umidità del prodotto è la causa principale di formazione di furosina. Nelle parole di un nutrizionista di lunga esperienza come il Dott. Pier Luigi Rossi, questa sostanza «è aggressiva sui villi intestinali, viene assorbita nell’intestino tenue, entra nel sangue, non può essere bloccata, si diffonde nel tessuto connettivo presente in ogni organo per connettere le cellule tra loro. Destruttura il collagene e il tessuto connettivo compromettendo la nutrizione e la ossigenazione delle cellule. Può essere eliminata solo attraverso il rene. Insomma è una molecola inquinante».

La furosina andrebbe quantomeno limitata, cercando di assumere con più moderazione i cibi che la contengono (la pasta, il pane, la pizza ed il latte UHT sottoposto a trattamenti

termici ad alte temperature). Secondo quanto riportato in letteratura i valori di furosina oscillano da 100 a 200 mg/100 g di proteine quando le temperature di essiccazione sono inferiori agli 85°C. La pasta con valori di furosina inferiori a 200 viene considerata un prodotto con un buon indice di qualità nutrizionale, perché la quantità degli aminoacidi essenziali (come la lisina) restano elevate.

Che pasta scegliere? Ricercare quei marchi di pasta che garantiscono una essiccazione lenta e a basse temperature è sicuramente un criterio di qualità su cui puntare. Molti dei produttori di pasta che possiedono aziende piccole, a conduzione familiare o comunque che non hanno uno sbocco nella Grande Distribuzione hanno di solito metodi di essiccazione della pasta meno industriali e quindi offrono un prodotto di qualità superiore al marchio di pasta industriale. Per non parlare poi dei piccoli produttori di pasta fresca (sia all’uovo che semplice). Anche questi, di solito sempre a dimensione locale o artigianale e non industriale, ci dispensano dalla preoccupazione della furosina. Come abbiamo detto la furosina si crea durante il processo di essiccazione, ed è assente nella pasta fresca quindi.

Cibo industriale vs artigianale: la pizza

Esaminiamo ora l’etichetta di una pizza surgelata in vendita al supermercato: vedremo subito una elaborata lista di ingredienti, cosa che si traduce in una bassa qualità nutrizionale dell’alimento. Infatti, più ingredienti sono presenti e più il prodotto è industriale e di bassa qualità, e questo vale come regola generale per ogni alimento. L’esempio in questione è una pizza surgelata al salame.

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In etichetta sono presenti ben 29 diversi ingredienti. Se il consumatore volesse sincerarsi delle genuinità di questo prodotto dovrebbe perlomeno leggere tutti gli ingredienti e capire di cosa si tratta. Sono presenti farina 0, salsa di pomodoro, sale e formaggio, quelli classici di ogni pizza. È presente anche l’olio, ma quale olio è stato usato? L’olio di colza, soprattutto, e in misura minore l’olio extravergine di oliva. Passiamo ad analizzare gli altri ingredienti della nostra pizza industriale. Il salame affumicato contiene un conservante nocivo, il nitrito di sodio. Si tratta di un conservante molto comune per carni e insaccati, che tuttavia nel 2015 è stato inserito dall’OMS tra le sostanze cancerogene di prima classe, in quanto nel nostro organismo tende a combinarsi con altre sostanze dando origine a dei composti altamente cancerogeni chiamati nitrosammine. Secondo l’AIRC (Associazione italiana per la Ricerca sul Cancro) un consumo eccessivo e regolare di nitriti è associato ad un aumento del rischio di tumori dello stomaco e dell’esofago.

Un altro ingrediente che troviamo nel salame di questa pizza surgelata è il destrosio, uno zucchero semplice ottenuto dalla lavorazione degli amidi del mais o dalla fecola di patate. Ha la mera funzione di esaltatore di sapidità in questo caso, dato che come conservante c’è già il nitrito di sodio. Ma l’aggiunta di zuccheri “nascosti” all’interno della nostra pizza non si ferma a questo: infatti troviamo la presenza anche di zucchero, maltodestrine e caramello. Le maltodestrine sono zuccheri a rapido assorbimento: si assimilano più in fretta del comune zucchero e hanno un indice glicemico più alto. Per questo sono molto utilizzate da chi pratica sport a livello agonistico. Ovviamente sono aggiunte inutili nel cibo delle persone comuni con fabbisogni di zucchero molto inferiori a quelli di un atleta.

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Il caramello è anch’esso uno zucchero, il risultato della cottura del saccarosio sino alla sua fusione, che avviene a temperature di oltre 160°C. Il fenomeno di cottura degli zuccheri dà origine ad un’altra sostanza molto problematica e tossica per la nostra salute, l‘acrilammide, di cui sentiamo spesso parlare. E il caramello ne è appunto ricco. Da segnalare in questa pizza anche la presenza di amido modificato, un altro carboidrato ottenuto sempre dalla lavorazione dell’amido di mais o dalla fecola di patate, che serve per dare una consistenza più gradita al consumatore nel prodotto. Altri ingredienti del tutto improbabili per una pizza fatta in casa o anche da pizzeria, sono le proteine vegetali idrolizzate (si tratta solitamente di proteine di soia che rivestono la stessa funzione del glutammato come esaltatori di sapidità).

Appaiono del tutto evidenti le grandi differenze di contenuto nutrizionale e di salubrità tra un cibo industriale come le pizze surgelate e un cibo casalingo-artigianale. Dubito infatti che vostra moglie o il pizzaiolo sotto casa possano pensare di aggiungere caramello, destrosio e proteine idrolizzate nell’impasto della pizza

Conclusioni

La prima cosa da fare è usare il senso critico quando si va a fare la spesa. Soffermatevi a valutare qualche istante il prodotto (aldilà del prezzo e delle diciture in evidenza), a leggere l’etichetta degli ingredienti e prestate attenzione alla scelta di prodotti davvero di qualità, preparati con pochi ingredienti e se possibile di produzione locale o regionale e freschi.

Ne guadagnerà la vostra salute e anche l’ambiente che ci circonda, e darete il vostro sostegno a chi produce il cibo in maniera più pulita. Ricordate sempre che l’etichettatura dei prodotti è l’elemento di maggiore democraticità che esista: consente di fare scelte consapevoli e libere.

https://www.lindipendente.online/2021/07/14/come-lindustr-alimentare-ha-trasformato-il-cibo-che-mangiamo/

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Guida definitiva a Expo 2020 Dubai, ecco cosa vale la pena vedere davvero

Per la prima volta nella storia dell’Esposizione Universale gli Emirati Arabi Uniti ospitano la mostra delle eccellenze del pianeta e dell’ingegno umano applicato. Questo è un viaggio intorno al mondo che ci insegna a progettare un futuro migliore. 192 paesi partecipanti. Tre parole chiave importantissime come sostenibilità, mobilità e opportunità. 6 mesi di apertura, dal 1 ottobre 2021 al 31 marzo 2022, per un totale di 10 settimane tematiche in cui navigare dentro e fuori i confini dello scibile umano. E questo scenario fitto non è che la punta più estrema dell’astronave fantasmagorica appena atterrata sulla sabbia di Dubai Expo 2020, l’esposizione universale per la prima volta ospitata negli Emirati Arabi. Connecting Minds and Creating the Future, è il titolo suggestivo con cui decidere non solo di approfondire tematiche urgenti, ma di accarezzare l’idea di programmare un volo diretto all’epicentro dell’evento. Cosa vedere e come arrivare a Expo Dubai è già realtà. Qui c’è una guida ragionata sulle idee più innovative, inclusive e intelligenti che la nostra società può scegliere di applicare nel prossimo futuro per un ideale benessere comune. A corredo di un viaggio in stile Gran Tour del terzo millennio un passaporto, alias di quello vero, con 50 pagine da affollare con i timbri di ciascun paese partecipante.

Expo Dubai, i padiglioni da vedere sono suddivisi in distretti

L’intento di Expo 2020 di Dubai è esaltante. Il più grande incontro di culture mai visto sino ad ora si prepara a una missione altrettanto universale. Riuscire a connettere razionalmente ogni mente per ridisegnare quel futuro migliore a cui tutti auspicano. Come? Semplice. All’indirizzo di Expo Dubai in Expo Road, in un’area così vasta da superare quella di Central Park a New York e del Principato di Monaco, sono stati istituiti tre distretti principali dentro cui collocare i padiglioni dei 192 paesi partecipanti. Semplificazione e quindi tre ambiti distinti ma comunicanti tra loro: Sustainability, Mobility e Opportunity.

 

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I padiglioni a tema sostenibilità da vedere a Expo Dubai

Natura e tecnologia potranno mai convivere in armonia? È questa la visione con cui il distretto dedicato alla sostenibilità accoglierà per sei mesi i più di 50 mila visitatori giornalieri. Le risposte arrivano sin da subito grazie a passeggiate all’ombra di alberi smart pensati come “pannelli solari e ”condensatori d’acqua”, a fianco del flusso di approvigionamento idrico dei falaj, canali di irrigazione antichissimi nati per la ripartizione delle risorse d’acqua tra i villaggi. A turbare le coscienze sul tema della sostenibilità c’è Gnasher, una gigantesca creatura dalle fauci aguzze impegnata a ingurgitare senza limite lo scarto abnorme prodotto dal nostro consumismo indefesso. Il nome della struttura-madre del distretto della Sostenibilità è un sostantivo italiano. Il Padiglione Terra di Expo 2020 Dubai porta la firma dello studio inglese Grimshaw Architects e si basa sui più alti e performanti principi di architettura sostenibile riconosciuti dalla certificazione LEED Platinum. Ricoperto da 4912 pannelli solari, il padiglione più virtuoso di Expo è in grado di generare qualcosa come 4GWh di energia pulita all’anno che è come dire avere a disposizione una potenza utile a ricaricare più di 9000 telefoni cellulari in una sola volta. All’interno del padiglione Terra si assiste a un vero a proprio viaggio negli oceani e nelle foreste del pianeta e i visitatori si troveranno di fronte l’immagine di uno scenario sempre più green. Sarà così inevitabile una profonda riflessione sui problemi cruciali che attanagliano la salute del nostro ecosistema.

Mobility, il distretto dei padiglioni di Expo Dubai 2020 racconta come ci sposteremo nel futuro

Se la pandemia ha contribuito a sottolineare quanto le connessioni siano importanti e quanto stretti gli uni agli altri possiamo porci nelle relazioni di ogni giorno, così il distretto della Mobilità di Expo 2020 Dubai puntualizza e apre discussioni sugli orizzonti che guidano noi umani al progresso non solo nello spostamento fisico, quanto nello scambio di idee e informazioni. Reale e virtuale qui trovano dinamiche innovative destinate a renderci una comunità globale sempre più connessa. Autoveicoli in auto-drive e tecnologie automotive sofisticate, viaggi spaziali supportati dal programma UAE National Space e lo storytelling della missione su Marte da parte degli Emirati, fanno del distretto della Mobility un autentico salto nel tempo. L’area espositiva include anche una corsia lunga 330 metri sdoppiata, sia in sotterranea che in esterna, dove sarà visibile e tangibile le performance test dei veicoli del futuro. Alif, il padiglione della Mobilità, disegnato dal pluripremiato studio Foster + Partners, ospita il più largo ascensore mai realizzato al mondo. Capace di trasportare oltre 160 ospiti a viaggio, l’ascensore contribuisce a condividere il messaggio più importante che sta alla base del concept di questa tematica di Expo 2020, la proiezione di uno scambio di beni, servizi e idee sempre più rapido e continuo. Con così tanti spunti, come l’evoluzione delle smart cities e la robotica ormai capillarmente presente nelle nostre vite, tutta questa evoluzione tecnologica sarà davvero un aiuto o una netta limitazione delle nostre privacy?

La Mission Possibile del distretto delle Opportunità è la scommessa più grande di Expo Dubai 2020

Commutare i sogni e le aspirazioni in realtà è il mantra del distretto dedicato alle Opportunità, dove anche il Padiglione Italia ha posato le sue fondamenta e con cui stimola i visitatori a fare tesoro dei propri talenti. Solo così sarà possibile modellare un futuro migliore mettendo a frutto il potenziale e il meglio di ciascuno. Quello che si potrà esperire nel distretto delle possibilità si allinea alle connessioni tra i change-makers e i social innovators chiamati a raccolta dai paesi partecipanti decisi a sottoscrivere una grande verità. Se basta davvero l’azione di un singolo a innescare il cambiamento, dove porterebbero quelle di 8 miliardi di individui? Con l’aiuto di tre mentori speciali le cui azioni seppur piccole in merito a cibo, acqua e risorse energetiche hanno portato nelle loro comunità cambianti positivi, il tour di questo distretto raccoglie una mission importante, combattere entro il 2030 la povertà, proteggere il pianeta dall’irreversibilità di una salute climatica compromessa e favorire la pace tra i popoli.

Expo Dubai 2020 è anche food experience per testare da vicino il sapore del Novacene

Dietro al progetto tasting di Expo Dubai 2020 The Future of Food: Epochal Banquet, attività collocata all’interno del distretto delle Opportunità, c’è lo studio di Bompas & Parr, il collettivo dinamico inglese pronto a nutrire stomaco e spirito con una esperienza dining immaginifica. Un menù stellare permetterà ai commensali di viaggiare per due ore mezza nel futuro tra assaggi macrobiotici, antipasti glow-in-the-dark, degustazioni di collagene vegetale e bocconi dolci muta-gusto in compagnia di un companatico d’eccezione, l’intelligenza artificiale. Questa è l’invito ad entrare nel 2320 e vivere appieno l’essenza del Novacene, l’era successiva all’Antropocene teorizzata dall’ultra centenario scienziato e inventore James Lovelock attualmente ancora vivo e attivo. Dopo un periodo in cui è stato l’uomo ad aver innescato cambiamenti radicali al pianeta, a dettare le regole del gioco presto toccherà a robot e algoritmi. Sapremo esserne all’altezza senza rovinare tutto? Di Expo Dubai 2020, date, tema e delle bellezze del Padiglione Italia sappiamo ormai quasi tutto. Studenti e giovanissimi sino a 17 anni entrano gratis, così come gli over 60.

https://www.lofficielitalia.com/arte/expo-2020-dubai-cosa-vedere-come-arrivare

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