__en__ac-image-T91608644156xc

SHOL-E ZARD

Lo Shol-E Zard è un tipico ed antico dolce persiano, preparato per l’appunto in Persia (l’attuale Iran), per la festa dell’Imam Hussein, (la festa dell’Arba’een).

INGREDIENTI:
200 g di riso a chicchi lunghi (basmati)
180 g di zucchero
4 cucchiai di acqua di rose per dolci (o aroma di rose)
80 g di pistacchi tritati (o di granella di pistacchi)
80 g di mandorle e altre 12 mandorle intere pelate per guarnire
1 l d’acqua
40 g di burro
1 bustina di zafferano
Cannella in polvere

Per prima cosa scottate le mandorle in un pentolino d’acqua bollente, quindi pelatele e tagliatele a lamelle. Tenetene da parte 12 spellate, ma intere. Tagliate il burro a pezzetti, sciogliete lo zafferano in un bicchiere d’acqua calda e tritate grossolanamente i pistacchi, tenendone da parte 2 cucchiai abbondanti.
Preparati i vari ingredienti mettete a bollire un litro d’acqua leggermente salata, a cui unirete il riso facendolo cuocere per 15-20 minuti a fuoco bassissimo mescolando continuamente. A questo punto unite al riso tutti gli altri ingredienti (zucchero, burro, zafferano, mandorle a lamelle ed i 2 cucchiai di pistacchi tritati), amalgamandoli molto bene. Sempre mescolando in continuazione, tenete il riso sul fuoco per altri 10 minuti, quindi toglietelo ed aggiungete l’acqua di rose o poche gocce di aroma di rose. Versate il composto in una pirofila rotonda e livellatelo con una spatola e lasciate intiepidire.
Attenzione, la pirofila o comunque il contenitore, deve essere rigorosamente rotondo, perchè il dolce va decorato secondo una precisa simbologia. Infatti, spolverizzate il dolce con la cannella in maniera da formare una croce dividendo così in 4 spicchi la superficie del dolce. Prendete le mandorle intere tenute da parte ed al centro di ogni spicchio create un fiore a tre petali, poi lungo tutta la circonferenza del dolce disponete i restanti pistacchi tritati (o la granella di pistacchi) in modo da formare una cornice. Quando il dolce sarà completamente raffreddato, passatelo in frigo per un paio d’ore prima di servirlo.

Ricette Iraniane

khoresht-bademjan

Stufato di melanzane – Khoresh bademgian

È uno dei stufati principali (Khoresh) della cucina Persiana. Le melanzane sono un ingrediente popolare in Iran. Molti anni fa, quando sono venuta in Italia, la vista delle melanzane così tonde e cicciotte era un pò scioccante per me. Perché in Iran si usa solo le melanzane lunghe e sottili, perciò, per avere un sapore più autentico (se ci sono), scegliete quelle lunghe.

Questo stufato viene servito con il riso basmati quindi cominciate parallelamente anche con la preparazione del riso.

INGREDIENTS:

 2.5 kg Melanzane (meglio lunghe)

400 g Carne ovina o vitello

2 Cipolle

1 cucchiaino Curcuma

2 cucchiaio Concentrato di pomolodo

q.b. Burro chiarificato

2-3 Pomodori

Sbucciate le melanzane, tagliateli in modo longitudinale (o a metà), Aggiungete il sale, lasciateli in una scolapasta per 1-2 ore in modo che perdino l’acqua

Friggete le melanzane in burro chiarificato, in un tegame, fino ad avere un colore marrone oscura su ogni lato. In una pentola a pressione mettete 1 cipolla diviso a meta, la carne, un pò di curcuma, una tazza di acqua, sale e pepe

Lasciate a cuocere per  45 minuti (in una pentola normale ci vorranno 2 ore)

Non c’è bisogno di tagliare la carne a pezzettini, perchè alla fine della cottura, sarà così morbida che si spezza da sola

Cuciniamo il Khoresh:

Tagliate a dadini l’altra cipolla, e soffriggetela, Aggiungete la curcuma, sale & pepe e rosolate tutto per qualche secondo. Aggiungete il concentrato di pomodoro & la meta dei pomodori tagliati, rosolate tutto, finché anche l’olio diventi rosso. (quando finiamo di cucinare la carne)

Aprite la pentola a pression e buttate via la cipolla. (serviva solo ad assorbire l’odore di carne)

Aggiungete il brodo e la carne allo stufato

Mettete anche le melanzane dentro e sopra aggiungete l’altra meta dei pomodori tagliati.

Attenzione: Non mescolate, dovete essere molto delicati. Le melanzane devono mantenere la loro forma fino la fine. Coprite tutto con il coperchio e cucinate sul fuoco basso per 1 ora.

Quando I sapori dello stufato sono ben amalgamati, khoresh bademgian è pronto!

NOTES

Unica difficoltà di questo piatto è che le melanzane dopo ore di cottura, diventano molto morbidi MA devono mantenere loro forma intera. Se aggiustate il sale fine della cottura, state attenti di mescolare piano lo stufato.

Per farlo meno pesante, invece di friggere io lo metto al forno e il risultato non è da meno! 

A volte gli amici lo chiamano: spezzatino di melanzane.

Servite con il riso basmati preferibilmente con Tahdig!

Come accompagnamento, andrebbero bene con: lo yogurt greco, erbe fresche (sabzi khordan) o l’insalata.

1

Insostenibile moda: le fibre sintetiche che fanno male all’ambiente

In una scena del film “Quel che resta del giorno”, diretto da James Ivory, interpretato da Antony Hopkins e ambientato in una grande residenza di campagna inglese negli anni ’30 del Novecento, due distinti (ma evidentemente poco aggiornati) signori inglesi si interrogano incuriositi su un personaggio che di lì a poco li avrebbe raggiunti, un giovane milionario americano che ha fatto fortuna nel Nuovo Mondo. Uno dei distinti signori dice all’altro: “Pare che abbia un’industria di sintetici” e aggiunge incuriosito: “Ma cosa saranno, poi, questi sintetici”?
Certo a quell’epoca l’industria dei tessuti sintetici era appena agli inizi, un’avventura della chimica e dell’industria degna del progresso del Nuovo Mondo, ma ancora pressoché sconosciuta in Europa. Oggi, però, a circa un secolo da quei tempi, tutti conosciamo bene i tessuti sintetici e anzi, molto probabilmente, non riusciremmo neanche più a immaginarcelo il mondo (Nuovo o Vecchio che sia) senza queste fibre che ormai ci circondano in tutte le forme, di tutte le consistenze e di tutti i colori. Eppure è proprio quello che forse dovremmo cominciare a fare: pensare a un mondo libero dalle fibre sintetiche. Sempre se abbiamo veramente a cuore l’ambiente e se abbiamo letto una recentissima ricerca pubblicata su Nature Scientific Reports, che ci sorprenderà con i suoi risultati. Perché, a quanto pare, la principale fonte di inquinamento da microplastiche degli oceani è dovuta proprio al lavaggio dei capi d’abbigliamento in fibra sintetica.
Già nel 2018 le Nazioni Unite, attraverso l’UNEP, il proprio programma ambientale, avevano lanciato l’allarme sul pericolo rappresentato dal peso che la frenesia dell’industria della moda esercita sull’ambiente a livello globale e non solo per quanto riguarda le risorse utilizzate per produrre i capi d’abbigliamento, ma anche per i rifiuti che questo settore produce.
Giusto per capire le dimensioni del problema, basti ricordare che l’industria della moda produce il 20% delle acque reflue di tutto il mondo e il 10% delle emissioni globali di anidride carbonica: più di tutti i voli internazionali e le spedizioni marittime. Le tinture tessili, poi, sono la seconda più grande fonte d’inquinamento delle acque a livello mondiale, dal momento che per creare un solo paio di jeans occorrono circa 7.500 litri d’acqua. Senza contare tutta l’energia necessaria all’industria tessile e l’inquinamento atmosferico derivante dalla sua produzione. E senza dimenticare, poi, i rifiuti prodotti: sempre secondo l’UNEP, ogni secondo (!) l’equivalente di un intero camion della spazzatura di tessuti, finisce in discarica o viene bruciato.

Su questa base, l’UNEP prevede che, se questa situazione non cambierà, entro il 2050 l’industria della moda sarà responsabile di un quarto del bilancio mondiale di emissioni di CO2. Infine, c’è la questione dei lavaggi: gli abiti infatti non inquinano solo quando devono essere prodotti o smaltiti, cioè all’inizio e alla fine della loro esistenza, ma anche durante tutto la loro vita utile, perché il solo fatto di lavarli fa sì che ogni anno venga rilasciata una gran quantità di microfibre negli oceani.
È proprio quest’ultima la questione che è stata affrontata da un team di ricercatori dell’Istituto per i polimeri compositi e biomateriali del CNR di Pozzuoli (NA), Francesca De Falco, Emilia Di Pace, Mariacristina Cocca e Maurizio Avella, autori dello studio pubblicato il 29 aprile sulla rivista Nature Scientific Reports intitolato “Il contributo dei processi di lavaggio degli abiti sintetici all’inquinamento da microplastiche”.
Le finalità di questo studio erano tanto semplici quanto importanti. Partendo dal fatto che il lavaggio dei tessuti sintetici è stato ritenuto la principale fonte di inquinamento da microplastiche primarie negli oceani – ovvero le plastiche direttamente rilasciate nell’ambiente sotto forma di piccole particelle di dimensioni inferiori ai 5 mm – i ricercatori hanno voluto quantificare l’effettivo contributo dei processi di lavaggio degli indumenti sintetici a questo problema ambientale. In secondo luogo hanno voluto capire in che modo le caratteristiche dei tessuti influenzavano il rilascio delle microfibre. Per rendere il test quanto più realistico possibile, hanno eseguito le prove di lavaggio su indumenti commerciali, usando una lavatrice per uso domestico. Dopo i lavaggi le acque di scarico sono state raccolte e fatte passare attraverso speciali filtri con diversa porosità. In questo modo sono state determinate con precisione quantità e dimensioni delle microfibre, mentre il rilascio è stato è stato analizzato anche in relazione alla natura e alle caratteristiche degli indumenti lavati.

I risultati hanno mostrato che la quantità di microfibre rilasciate durante il lavaggio varia da 124 a 308 mg/kg di tessuto lavato, in base al tipo di indumento. È una quantità che corrisponde a un numero di microfibre compreso tra 640.000 e 1.500.000.
Il team, poi, ha riscontrato che alcune specifiche caratteristiche del tessuto (come il tipo di fibre che costituiscono i fili e la loro torsione) hanno influenzato il rilascio delle microfibre durante il lavaggio e ha anche scoperto che una gran quantità di microfibre di natura cellulosica è stata rilasciata da vestiti realizzati con una miscela di poliestere e cellulosa.
Altre importanti indicazioni, infine, sono state ricavate sulle dimensioni delle microfibre, grazie alla scoperta che la frazione più abbondante di esse è risultata essere trattenuta da filtri con dimensioni dei pori di 60 μm, con fibre che presentavano una lunghezza media di 360-660 μm e un diametro medio di 12-16 μm. In altre parole, i ricercatori hanno ottenuto utili indicazioni anche sulle dimensioni delle fibre che riescono a passare attraverso gli impianti di trattamento delle acque reflue, finendo per rappresentare una minaccia per gli organismi marini.
Ma come e perché avviene il rilascio delle microfibre? Essenzialmente il distacco delle microplastiche dagli abiti sintetici è dovuto agli stress chimici e meccanici subiti dai tessuti durante il processo di lavaggio in lavatrice, che porta al rilascio delle microfibre le quali, grazie alle loro ridotte dimensioni, riescono a passare parzialmente indisturbate attraverso gli impianti di trattamento delle acque reflue, finendo direttamente in mare. Al momento la questione se questi impianti siano in grado (e in che misura) di trattenere queste particelle è ancora aperta e dibattuta. Quel che è certo, però, è che una gran quantità di microfibre è stata trovata in uscita da almeno 8 impianti di trattamento nella baia di San Francisco e altri studi hanno individuato la presenza di microplastiche simili allo sbocco di impianti in Svezia, Australia e Finlandia, indipendentemente da quella che era l’efficienza degli impianti o dal grado di avanzamento dei trattamenti.
Il riscontro di questi dati e i risultati dello studio suggeriscono, dunque, che proprio gli impianti di trattamento, grazie alla gran quantità di acque lavorate, potrebbero configurarsi come le porte attraverso le quali le microplastiche raggiungono i mari. D’altra parte la presenza di microplastiche negli ecosistemi marini è già ampiamente documentata, mentre microfibre sono state ritrovate sulle spiagge di tutto il mondo, nelle acque dell’Oceano Pacifico, del Mare del Nord, dell’Oceano Atlantico e persino dell’Artico e nei sedimenti di acque profonde.
Sulle conseguenze di questo fenomeno per la catena alimentare gli studi sono ancora insufficienti per trarre conclusioni certe ma, per quanto riguarda i possibili effetti sulla fauna marina, si ipotizza che le microfibre di Polietilene tereftalato (il classico PET delle bottiglie d’acqua minerale) ingerite dalla Daphnia magna, una diffusa specie di crostaceo che compone lo zooplancton, potrebbero causarne un aumento della mortalità con ripercussioni negative sulle specie che se ne cibano. Fibre tessili, poi, sono state individuate già alcuni anni fa anche in pesci e molluschi in vendita per il consumo umano, nei mercati di Makassar, in Indonesia, e della California negli USA.
La cosa, in effetti, non dovrebbe stupire dato che recenti stime valutano che gli indumenti sintetici contribuiscano per circa il 35% al rilascio negli oceani delle microplastiche primarie di tutto il mondo, facendone, di fatto, la principale fonte di questo inquinante.
Questo dato, a sua volta, è conseguenza del fatto che le fibre sintetiche rappresentano circa il 60% di tutte le fibre consumate ogni anno dall’industria dell’abbigliamento, che ammontano a quasi 70 milioni di tonnellate. Dunque ogni anno l’industria della ‘fast fashion’, cioè della moda rapida e del guardaroba (basato in gran parte sui tessuti sintetici) che deve essere cambiato e rinnovato velocemente, produce indumenti per circa 42 milioni di tonnellate di fibre sintetiche. Questi capi d’abbigliamento, poi, vengono lavati da circa 840 milioni di lavatrici domestiche che, ogni anno, consumano quasi 20 chilometri cubi d’acqua e 100 miliardi di chilowattora di energia.
È un ritmo troppo alto, un peso troppo gravoso da sostenere, prima di tutto per l’ambiente, ma anche per molti lavoratori del settore (spesso residenti in Paesi del Terzo Mondo) sottoposti a orari e condizioni di lavoro massacranti e paghe da fame, per mantenere bassi e competitivi i prezzi dei capi d’abbigliamento.
È per contrastare questo stato di cose che lo scorso 10 luglio, durante il Forum sullo Sviluppo Sostenibile di New York, le Nazioni Unite hanno lanciato l’Alleanza per la moda sostenibile, cui hanno aderito già 10 organizzazioni. Lo scopo è incoraggiare il settore privato, i governi e le organizzazioni non governative a creare una spinta, a livello di settore, per ridurre l’impatto sociale, economico e ambientale della moda trasformandola, invece, in un driver per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.
Insomma, forse è arrivato il momento di cambiare abitudini, piuttosto che abiti.

https://www.ilcambiamento.it/articoli/insostenibile-moda-le-fibre-sintetiche-che-fanno-male-all-ambiente

1

Tessile sostenibile: digitalizzazione e sostenibilità al centro dell’industria italiana macchine tessili

Nonostante di pandemia, l’industria italiana delle macchine tessili non si è fermata, anzi dai dati positivi emersi, pare proprio godere di ottima salute. Questi ultimi sono stati presentati nel corso dell’Assemblea annuale di Acimit, Associazione dei costruttori italiani di macchinari per l’industria tessile, che ha avuto luogo lo scorso 1° luglio negli spazi di Villa Cavenago a Trezzo sull’Adda (MI).
I dati sulla produzione italiana
La produzione italiana ammonta ad un valore di 2.388 milioni di euro (+35% sul 2020 e +5% sul 2019), mentre le esportazioni totali sono state pari a 2.031 milioni di euro (+37% sul 2020 e +9% sul 2019).

Certamente, alcuni ostacoli da affrontare rimangono, come sottolinea Alessandro Zucchi, presidente Acimit: “Il 2022 rimane un anno pieno di incognite. Il conflitto russo-ucraino e il perdurare della pandemia rischiano seriamente di ritardare l’atteso consolidamento della crescita per le imprese del settore. La difficoltà nel reperimento delle materie prime e dei componenti condiziona negativamente la completa evasione degli ordini raccolti già nel 2021. Costi energetici in aumento e una dinamica inflattiva comune a molte commodities deprimono il clima di fiducia delle aziende. Tutto ciò rende il quadro previsivo per il settore nel suo complesso negativo. Saranno soprattutto i margini di redditività a essere erosi nel prossimo futuro”.

Il meccanotessile 4.0
La trasformazione digitale ha già portato numerose realtà del settore a rivisitare il processo produttivo: sempre più spesso si parla, ad esempio, di Internet of things per connettere l’ecosistema aziendale, di algoritmi, di machine learning applicati alla produzione, di manutenzione predittiva, di cloud per la gestione integrata dei vari reparti.

Il progetto Digital ready
L’Associazione infatti ha puntato sul progetto Digital ready, grazie al quale vengono certificate le macchine italiane che adottano un set comune di dati con lo scopo di facilitare l’integrazione con i sistemi operativi delle aziende clienti.

Il progetto Sustainable technologies e la Green label
Altro progetto finalizzato a coniugare efficienza produttiva e rispetto per l’ambiente è Sustainable technologies, che ha preso piede nel 2011 a livello associativo, per raccogliere l’impegno dei costruttori italiani di macchine tessili nel campo della sostenibilità.

Cuore del progetto è la Green label, certificazione verde dedicata ai macchinari tessili italiani che ne evidenzia le prestazioni energetiche e ambientali. Questa è stata sviluppata con Rina, ente di certificazione internazionale.

L’indagine di Rina Consulting sull’impatto ambientale positivo
L’indagine di Rina Consulting sull’evoluzione e sull’impatto della Green label negli ultimi anni, conferma che: le innovazioni tecnologiche che le aziende aderenti al progetto hanno apportato ai loro macchinari, possono solo che tradursi in benefici in termini di impatto ambientale, quali la riduzione delle emissioni di CO2 equivalente dei macchinari e in vantaggi economici per chi utilizza le macchine.

Nel 2021, è stato possibile quantificare in 204.598 tonnellate di CO2 equivalente le emissioni annue evitate, grazie alle migliorie fatte sui macchinari, corrispondenti alle emissioni di anidride carbonica generate da 36.864 automobili che percorrono mediamente 35mila km l’anno.

L’utilizzo di macchinari green labelled nel meccano-tessile ha permesso una riduzione fino all’84% dei consumi in termini di risparmio energetico.

Secondo l’unanime parere dei relatori presenti all’Assemblea di Acimit, che hanno riportato la propria esperienza nei processi di transizione ecologica delle loro imprese, il futuro del meccano-tessile italiano non può più prescindere da una tecnologia che offra soluzioni sostenibili che permettano anche di ridurre i costi di produzione.

 

Imperdibile infine dal prossimo 8 giugno fino al 14 giugno, presso la fiera Milano Rho, la 19esima edizione di Itma, vetrina internazionale per tante nuove soluzioni operative, dove ci sarà un’esposizione internazionale di macchine tessili.

 

https://www.canaleenergia.com/rubriche/transizione-ecologica/tessile-sostenibile-digitalizzazione-e-sostenibilita-al-centro-dellindustria-italiana-macchine-tessili/

consejos_para_comprar_ropa_ecologica_426_orig

Nuove tecnologie per un’industria tessile ecosostenibile: quali sono e come funzionano

Quella dell’industria tessile è una filiera lunga e inquinante in tutti i molti passaggi che vanno dalla materia prima al prodotto finito. L’attenzione verso una moda più responsabile sta però crescendo, così come la produzione di tessuti sostenibili che possano sostituire quelli “tradizionali”

Tra le attività economiche che incidono maggiormente sulla sostenibilità ambientale, l’industria tessile è tra i primi posti insieme a quella petrolifera, che impiega fonti fossili per produrre energia. Dalla materia prima al prodotto finito, sono moltissimi i passaggi richiesti: ognuno di questi ha un impatto rilevante.

Di fronte a questo scenario, considerato che la produzione mondiale di indumenti è destinata a crescere del 63% entro il 2030, si dimostra necessario aderire ai progetti e alle proposte che le nuove tecnologie stanno avanzando in merito, attraverso una serie di interventi mirati e ragionati anche al cambiamento delle abitudini di noi esseri umani.

I capi di abbigliamento sono probabilmente il bene più comune che le persone acquistano nel mondo, e il numero medio di capi che un individuo acquista ogni anno è cresciuto drasticamente: una ricerca di McKinsey & Company mostra che il numero di capi prodotti annualmente, a partire dal 2000, è più che raddoppiato e che aveva superato i 100 miliardi di pezzi l’anno già nel 2014.

Tralasciando le condizioni di lavoro e di sfruttamento alle quali purtroppo ancora molto spesso sono sottoposti i lavoratori del settore, i problemi principali causati dall’industria tessile includono il consumo di risorse, l’inquinamento delle acque, l’inquinamento atmosferico e l’inquinamento derivante dalla produzione di rifiuti solidi. Se consideriamo il boom più recente della “fast fashion” (ovvero la “moda veloce”, che consente una disponibilità costante di nuovi stili a prezzi molto bassi), è scontato immaginare il forte aumento della quantità di indumenti prodotti, utilizzati e infine scartati.

I cittadini europei consumano ogni anno quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11 kg. Globalmente, ogni anno, circa 90 milioni di capi di abbigliamento finiscono nelle discariche. Gli indumenti usati possono essere esportati al di fuori dell’UE, ma per lo più vengono inceneriti o portati in discarica (87%). A livello mondiale, meno dell’1% degli indumenti viene riciclato come vestiario, in parte a causa di tecnologie inadeguate. Alcuni degli agenti inquinanti che finiscono nelle discariche includono: la filaccia, gli scarti delle fibre, i ritagli e gli imballaggi usati prodotti nella preparazione del tessuto; i fanghi prodotti dal trattamento delle acque di scarico; contenitori dei prodotti chimici e dei coloranti utilizzati nei processi di colorazione e finissaggio dei tessuti.

L’impatto della produzione e dei rifiuti tessili sull’ecosistema

Si calcola che l’industria tessile sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme.

Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2017 hanno generato circa 654 kg di emissioni di CO2 per persona. Nello specifico, l’inquinamento atmosferico prodotto dall’industria tessile include: ossidi di azoto e diossido di zolfo derivanti dalle fasi di produzione energetica; composti organici volatili (VOCs) prodotti nella fase di coating, asciugatura, colorazione, trattamento delle acque di scarico e stoccaggio; vapori di anilina, acido solfidrico, cloro e diossido di cloro prodotti nelle fasi di colorazione e decolorazione.

 

Abbigliamento, una filiera molto lunga e inquinante

Inoltre, ogni giorno, le fabbriche tessili rilasciano milioni di litri di acque reflue non trattate nelle fognature pubbliche che di fatto vengono scaricate nei fiumi e nei mari. Tendenzialmente vengono impiegati 95-400 litri di acqua per kg di tessuto a seconda del processo di lavorazione in corso e le acque reflue tessili ad oggi sono circa il 22% del volume totale generato da tutti i diversi tipi di industrie. Per questo motivo lo smaltimento delle acque reflue è divenuta una delle maggiori preoccupazioni ambientali negli ultimi decenni.

Il processo di colorazione delle fibre rappresenta il passaggio più inquinante, consumando più di 100 litri di acqua per chilogrammo di materiale trasformato. L’80% di questo volume viene scartato come acque reflue estremamente colorate, visto lo scarso assorbimento da parte delle fibre tessili. Si stima che ogni anno circa 105 tonnellate di coloranti vengano rilasciate nell’ambiente tramite i 200 miliardi di litri di acque reflue.

 

Le tinte sono composte da molecole che sono state studiate e scelte appositamente per garantire grande stabilità e resistenza. Questo implica che il colorante rappresenti un enorme problema nelle acque di scarico perché non facilmente degradabile: la maggior parte di queste tinte sono dette azotate perché posseggono un particolare legame chimico tra due atomi di azoto, solitamente non presente in natura e quindi particolarmente resistente alla degradazione. Quella dei capi di abbigliamento è una filiera molto lunga, nella quale l’indumento è trattato, impregnato, imbevuto, vaporizzato con i più svariati prodotti chimici: coloranti, pigmenti artificiali, formaldeide, nichel, ammoniaca, cloruro, nitrato, fosfato, solfato, metalli pesanti e altro ancora. Alcune fibre vengono trattate, per esempio, con il dimetilfumarato, un tipo di antimuffa usato per preservare i tessuti durante lunghi periodi di stoccaggio.

Non è un caso infatti che Rapex, il sistema di allerta rapido europeo per i prodotti di consumo pericolosi (esclusi quelli alimentari, farmaci e presidi medici), metta al primo posto della classifica per sostanze chimiche a rischio, proprio vestiti e capi di moda e che il 7-8% delle patologie dermatologiche, stando ai risultati di uno studio commissionato dalla Commissione UE – Chemical substances in textile products and allergic reactions – siano dovute ai vestiti che indossiamo. Quindi, oltre che per l’ambiente, l’abbigliamento che indossiamo ogni giorno è potenzialmente dannoso direttamente per la salute umana essendo contaminato da sostanze tossiche che interagiscono con il nostro organismo tramite il contatto prolungato con la pelle.

Inoltre, il lavaggio di indumenti sintetici è responsabile del rilascio del 35% di microplastiche primarie nell’ambiente marino. Un ciclo di lavaggio di soli capi sintetici produce fino a un milione di microfibre, tutte di dimensioni inferiori a 5 millimetri, il 40% non viene intercettato da nessun impianto e completa il suo viaggio solo in mare. Dai dati ottenuti con la ricerca A New Textiles Economy della fondazione Ellen MacArthur è emerso che ogni anno vengono scaricate in mare mezzo milione di tonnellate di microfibre, l’equivalente di cinquanta miliardi di bottiglie di plastica. Secondo una ricerca dell’University College of Dublin, su un carico da 6 kg, i tessuti misti cotone e poliestere rilasciano quasi 138 mila fibre, il poliestere circa 496 mila e l’acrilico 729 mila. Dall’impianto di depurazione poi, i frammenti potrebbero tornare all’uomo attraverso la catena alimentare. Sia tramite i fanghi di depurazione usati come fertilizzanti nei campi, sia attraverso il bioaccumulo in quegli organismi usati per l’alimentazione umana. Come detto in precedenza, una delle ipotesi sulla tossicità delle microplastiche è legata soprattutto alle sostanze nocive impiegate per la loro produzione ma anche ai contaminanti organici e metallici raccolti in ambiente e assorbiti sulla loro superficie. In questo modo le microplastiche potrebbero fungere da vettori per tali composti tossici, aumentando l’esposizione effettiva.

Una strategia per ridurre, ad esempio, le microfibre prodotte dei nostri lavaggi è fare un investimento in un prodotto tecnologico come la Cora Ball. Creata dal Rozalia Project for a Clean Ocean e finanziata in crowdfunding su Kickstarter, si tratta di una sfera che cattura le microfibre che vagano per il cestello dopo essersi staccate dai vestiti. Evitando che finiscano negli scarichi, riduce i residui dei capi sintetici del 26%. Un’altra soluzione è il sacco Guppy Friend: i vestiti vanno inseriti e lavati al suo interno. L’acqua passa attraverso le maglie del sacco, l’azione della lavatrice rimane efficace ma le microfibre vengono intercettate, per poi essere raccolte alla fine del bucato. Esiste anche la possibilità di inserire dei filtri per le microfibre sia all’interno che all’esterno della lavatrice, che garantiscono una protezione quasi totale.

Ulteriore strategia per ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile riguarda l’orientamento ecosostenibile della filiera, le cui potenzialità sono enormi, fino a rappresentare il 20% del fatturato del settore in Italia (4,2 miliardi). D’altra parte, già ora il 55% degli italiani è disposto a pagare di più per capi di abbigliamento eco-friendly realizzati con eco-tessuti. Negli ultimi anni, infatti, l’attenzione verso una moda più responsabile sta crescendo esponenzialmente, così come la produzione di tessuti sostenibili che possano sostituire quelli “tradizionali” e avere un minore impatto ambientale.

 

https://www.agendadigitale.eu/smart-city/nuove-tecnologie-per-unindustria-tessile-ecosostenibile-quali-sono-e-come-funzionano/

2..

Il tessile ha fatto la storia e resta uno dei pilastri dell’economia

“A questo punto, a costo di interrompere il filo del discorso, viene spontaneo un confronto tra il destino dell’Inghilterra e quello dell’Italia. L’Inghilterra si ritrovò tra le mani ottima lana quando (nel Medioevo) la lana era la materia prima più ricercata; (…). In contrasto l’Italia ebbe poca e grama lana nel Medioevo, pochissimo e gramissimo carbone nella Rivoluzione Industriale, e pochissimo e gramissimo petrolio nell’epoca corrente: in compenso ebbe sempre abbondanza di marmo (per i suoi monumenti)”.

Per parlare della storia del tessile potremmo cominciare da questo celebre brano del geniale “Allegro ma non troppo”, il saggio satirico ma scientifico a modo suo del grande economista italiano Carlo Maria Cipolla, che sorridendo insegna alcune grandi verità.

Il tessile è uno dei pilastri dell’industria moderna, tradizionalmente gli studiosi la indicano assieme all’invenzione delle fonderie e all’energia a vapore come i tre fattori della Rivoluzione industriale inglese. Ce n’è un quarto, ed è il dominio coloniale: noi europei amiamo pensare che lo sviluppo economico proceda da noi verso gli altri continenti, per cerchi concentrici successivi, convinti come siamo di abitare nel picco della civiltà; ma le cose sono un po’ più complicate.

Non troppo tempo fa, diciamo fino a tutto il XVII secolo, era l’India il principale polo dell’industria tessile: la produzione indiana di tessuti era la protagonista del commercio mondiale, in Asia, in Africa, e in Europa, che importava tessuti indiani, soprattutto di cotone. L’Inghilterra, peraltro, aveva un primato nei tessuti di lana, che erano i più usati dagli europei. Oggi, noi preferiamo il cotone, mentre usiamo la lana solo in inverno e per certi capi: l’espansione coloniale inglese in India ha a che fare con il controllo della materia prima, la stoffa, mentre la produzione del prodotto a maggior valore aggiunto, cioè il capo finito, venne gradualmente accentrata in Inghilterra, ed eventualmente riesportata in India e in tutto il mondo. Così si costruisce un impero, senza dimenticare il controllo dell’Egitto, l’altro grande produttore mondiale.
Anche la guerra civile americana non si capisce senza pensare all’importanza del cotone: e del passaggio da una semplice produzione di materia prima con manodopera schiavistica, base di una società statica e poco moderna, ad un’economia industriale in cui la materia prima potesse finalmente venir trasformata in prodotti finiti. Insomma, senza Lincoln non solo non si sarebbero liberati gli schiavi, ma non avremmo avuto le icone della moderna industria americana, i blue jeans, le tshirt…
Sì, qualcuno ricorderà che i primi blue jeans usavano una tela forse inventata a Genova, detta blu di Genova e poi blue jeans: ma quello che conta è il potenziale industriale per produrre e vendere, e l’idea vincente per trasformare un pezzo di stoffa in un capo finito, il cui valore è anche immateriale: quando compriamo, per esempio, un jeans Levi’s non compriamo solo una stoffa, ma il Far West, le cavalcate, Marlon Brando e James Dean: storia, leggenda, cinema e marketing, assieme a un sistema di produzione che permette al consumatore globale di trovare lo stesso identico paio di jeans a Milano, a Roma, a Tokyo, a Buenos Aires. Se no, 150 euro per un paio di brache da vaccaro in cotone rustico non si spiegano: e invece.
Diversa la storia italiana: perché noi un’industria tessile l’abbiamo avuta, e l’abbiamo, ma su scala infinitamente minore. Prima di tutto per lo scarso controllo delle materie prime: non molta e non eccellente la lana italiana, e niente cotone, né locale, né conquistato oltreoceano.
La tradizione italiana dell’artigianato di lusso ha avuto la seta: un’altra storia avventurosa, che anche stavolta ci ricorda come non sia vero che l’Europa sia il centro del mondo. La seta era dei cinesi: sin dall’antichità la vendevano fino in Italia, e parliamo addirittura degli antichi romani, che non avevano però il dominio di alcunché, e quindi acquistavano a carissimo prezzo, in oro, l’esotico prodotto giunto fino alle rive del Mediterraneo attraverso un complesso sistema di carovane e di intermediari, che riportavano indietro, ai cinesi, l’oro di quei buzzurri europei, gente che vestiva di lana grossa e pellicce, figuriamoci.
Qui c’è una delle prime storie di spionaggio industriale; sembra proprio accertato che due monaci cristiani e asiatici, giunti in pellegrinaggio a Costantinopoli, città piena di chiese e luoghi santi, abbiano rivelato il trucco dei bachi da seta a un imperatore cristiano: religione e affari, pellegrinaggi e favori politici. Non c’è da stupirsi che, tempo dopo, l’imperatore cinese abbia bandito i cristiani, considerati inaffidabili agenti stranieri. Ma intanto il baco da seta era arrivato, e l’Italia, dal Medioevo diventò il primo centro di produzione della seta. Attenzione: non diventi una potenza mondiale con la seta, al massimo fai una produzione limitata per clienti aristocratici anche stranieri, e questa, come sappiamo, è in effetti la tradizione italiana. Anche se le cose cambiano, e con l’invenzione della seta artificiale e lo sviluppo industriale dei paesi asiatici, la seta italiana è diventata poco più che un elegante relitto, e i marchi italiani si limitano, in gran parte, a porre il loro prestigioso marchio su tessuti di nuovo di provenienza orientale.
Geni e cialtroni, gli italiani, l’altra tradizione nazionale sta all’estremo opposto, nel riciclaggio dei cascami e degli avanzi.
Non si può negare che la parola “magliaro” ha un suo peso simbolico, letterario: non solo è stato per un certo periodo storico, diciamo il secondo dopoguerra, un mestiere identificato, a torto o a ragione, con gli emigranti italiani che raccoglievano e riciclavano in Germania, Svizzera, Francia avanzi e scarti, battendo i mercatini ambulanti. Un’identificazione, quella tra magliari e italiani, che abbiamo introiettato con senso di colpa: oggi che i magliari sono (quasi) spariti, il richiamo a “non fare i soliti magliari” risuona allarmato nei gruppi di turisti italiani all’estero, a scongiurare brutte figure e litigi inutili. Eppure, quella della rigenerazione dei tessuti, a partire dalle scorte sprecate e abbandonate dall’esercito americano dopo il 1945, ha una sua nobiltà, che è stata, per esempio, alla base della rinascita di un polo industriale di tutto rispetto come quello di Prato, che aveva alla base della sua filiera produttiva la raccolta su grande scala dei “cenci”, cioè gli abiti usati e gli scarti di lavorazione, ritrasformati in filo e in tessuto.
Oggi, il tessile italiano affronta sempre nuove trasformazioni: l’alta moda italiana non impiega che pochi tessuti “made in Italy”, il suo valore aggiunto è essenzialmente immateriale, design e prestigio della firma, che costituiscono comunque il vero valore aggiunto della moda italiana. Al tempo stesso, la delocalizzazione della produzione sembra oggi cominciare a incontrare le prime resistenze: l’elezione del protezionista Trump alla Casa Bianca ha qualcosa a che fare con il disagio dell’industria cotoniera americana, un tempo la prima del mondo, che da anni investe cifre considerevoli per campagne all’insegna del “compra americano”, cercando di convincere i consumatori a preferire il prodotto tessuto con cotone nazionale e confezionato negli Usa. In questa campagna, oltre ai richiami patriottici, si sono aggiunti anche argomenti più moderni e sofisticati: l’idea che oggi il tessuto di cotone americano da lavoratori meglio pagati e meglio protetti sindacalmente di quelli asiatici, mentre la coltivazione non impiegherebbe che in maniera molto più controllata pesticidi e altri inquinanti chimici: il prezzo maggiore, quindi, si giustificherebbe dal punto di vista etico ed ecologico.
In effetti, la sempre maggiore attenzione alla sostenibilità ecologica della produzione, in un mondo che i trasporti veloci hanno reso più piccolo, ma anche dove cominciano a scarseggiare acqua e suolo coltivabile, e salgono i livelli di anidride carbonica che impattano sul clima, porta a limitare lo spostamento non necessario di merci via nave o via aereo, e a porsi il problema degli scarti. Questo, dal lato della riduzione dell’inquinamento da trasporto, sta portando alla riscoperta di coltivazioni tessili italiane tradizionali e dimenticate, come la canapa. Dall’altro, quello della gestione rifiuti, i vecchi “cenciaioli” hanno di fronte a sé il nuovo business del recupero con nuove tecnologie degli scarti tessili, la roba che prima non si poteva nemmeno recuperare, e che finiva in discarica, dove ha un fortissimo potenziale inquinante. Ad oggi, solo il 12 per cento di questi scarti è avviato al riciclo, e questo comporta non solo uno spreco, ma un danno ambientale di prima grandezza. Una fibra tessile abbandonata nell’ambiente danneggia l’acqua, dove rilascia fosfati e nitrati, produce, se bruciata, quantità importanti di gas serra, può essere addirittura tossica. Un’industria verde, che chiuda il ciclo, e preservi la terra che all’inizio della filiera ha prodotto lana, lino, cotone, è la prospettiva di oggi.


https://unsic.it/centro-studi/tessile-la-storia-resta-uno-dei-pilastri-delleconomia/

Pic4

L’industria dei tappeti iraniana è stata trascurata sui mercati internazionali

Conversazione “Dook” del social network dell’industria tessile e dei tappeti con il presidente e la segretaria generale della camera di commercio Irano e Italiana nella quattordicesima edizione della fiera internazionale di tappeti a macchina di Teheran.

In questa fiera, Cavaliere Ahmad Pourfallah, il presidente della camera di commercio Irano- Italiana ha dichiarato:

La Camera di commercio Irano-Italiana è la più grande camera comune con un paese Europeo. L’Italia è stato il primo partner commerciale d’Iran negli anni precedenti delle sanzioni, ma con l’imposizione delle sanzioni l’Italia si è classificata come seconda dopo la Germania.

Il livello degli scambi tra Iran e Italia ha raggiunto 7,7 miliardi di euro dieci anni fa.  Sebbene lo scambio commerciale nel Paese non si sia fermato dopo le sanzioni, ma è stato sceso a meno di un miliardo di Euro, Va notato che l’Italia è l’unico Paese con il quale la bilancia commerciale dell’Iran è positiva, il che significa che le esportazioni verso l’Italia sono più delle importazioni. Il mio consiglio per gli attivisti economici in Iran e’ questo: Preparati per l’interazione e la comunicazione globale.

A volte si vede che quando gli uomini d’affari iraniani partecipano agli incontri congiunti con i loro omologhi italiani, non hanno nemmeno un biglietto da visita o un opuscolo in inglese per presentare le loro attività. Lida Shahabi, Segretaria Generale della Camera La camera di commercio Irano Italiana, ha dichiarato in questo incontro: La camera di commercio Irano Italiana è un ponte tra uomini d’affari iraniani e italiani.  La camera di commercio Irano Italiana ha un omologo a Roma. Gli stessi servizi che vengono forniti nella camera di commrecio Irano e Italiana sono forniti anche ai membri nella camera di Roma. La Camera di commercio Irano-Italiana ha più di 5mila membri e una delle attività di questa camera è la comunicazione efficace con i membri in Iran e il trasferimento reciproco delle loro esperienze. Un’altra misura della camera è l’ottenimento dei visti d’affari per i membri. IICCIM ha la possibilità di inviare in Italia le delegazioni economiche dell’industria tessile e delle macchine tessili per incontrare i loro omologhi in quel paese.

Se la camera di commercio Irano Italiana dispone delle informazioni necessarie e affidabili nel campo dell’industria dei tappeti fatti a macchina, allora ce l’ha sicuramente fornisce agli investitori stranieri. A mio avviso, l’industria dei tappeti meccanici è stata trascurata nel mercato internazionale e ha bisogno di marketing scientifico e di fornire le informazioni necessarie al mondo attraverso i  vari canali di comunicazione.

4

Simposio sugli Investimenti in “Italia”

Lunedì 9th Marzo si è tenuto il “Simposio sugli investimenti in Italia” presso la residenza dell’ambasciatore d’ italia in Iran grazie agli sforzi della camera di commercio Irano- Italiana e con la collaborazione del dipartimento commerciale ed economico dell’Ambasciata d’Italia a Teheran (ITA).
Sua Eccellenza Giuseppe Perrone, l’Ambasciatore d’Italia in Iran, Dr. Bayat, Ambasciatore d’Iran in Italia, Cavaliere Ahmad Pourfallah, il presidente della Camera di Commercio Irano-Italiana, Dr. Balloni , il Primo Segretario dell’Ambasciata d’Italia in Iran, Dr. Albano, Il Presidente di ICE In Iran, E Dr. Gorji avvocato ed esperto legale italo-iraniano sono stati tra i relatori di questo evento.
I temi importanti discussi in questa cerimonia, che si è svolto alla presenza di un gran numero dei membri della camera di Commercio Irano-Italiana e di attivisti economici interessati ad investire in Italia, sono stati: i vantaggi e le modalità dell’ investimento in Italia, il modo di Cooperazione tra l’ambasciata ed i centri correlati in trasferimenti finanziari e bonifici bancari, nonché supporto agli investitori.

2

Il Trentunesimo Assemblea Generale Ordinaria Annuale – (secondo turno)

Il Trentunesimo assemblea generale ordinaria annuale si e’ svolto nella camera di commercio, industrie, Miniere e agriculture d’Iran alle ore 10:30 precisa, secondo l’annuncio pubblicato a giornale “Etelaat”, con la presenza del presidente della camera di commercio Irano–Italiana, il consiglio di amministrazione della camera Irano-Italiana, della segretaria generale della camera di commercio Irano–Italiana, dei memberi, ed il sezione legale d’Iran Chamber per rivedere l’esecuzione della camera nel 2021-2022 e l’Offerta del bilancio proposta per l’anno 2022 – 2023, altri punti all’ordine del giorno.

In questo incontro, dopo aver suonato l’inno nazionale d’Iran e d’Italia, Cavaliere. Pourfallah, il Presidente della Camera Irano-Italiana, ha pronunciato un discorso ed ha espresso soddisfazione per la fine dei problemi causati dalla diffusione del Corona virus, e alla ripresa dei lavori del consolato italiano e l’inizio del processo di rilascio dei visti ai membri, lui anche ha menzionato l’elevato numero di nuovi membri della Camera di Commercio Irano- Italiana e il rinnovo di un numero significativo dei vecchi membri. Il presidente della camera di IICCIM ha continuato che con i provvedimenti  presi della Segretaria Generale, la signora Shahabi, la camera ha continuato le sue attività secondo la routine precedente durante i tempi difficili di Covid-19.

Cavaliere Pourfallah ha menzionato i servizi e le attività della camera, oltre alla fiera virtuale e al trimestrale online.

Al termine, il presidente ha espresso la speranza per il successo della assemblea ed ha spiegato che la Segretaria Generale, presenterà un rapporto completo e dettagliato sui risultati tenuti della Camera.
Dopo l’intervento del presidente della camera, la riunione è iniziata con l’elezione del presidente, supervisore e segretario dell’assemblea, che ha previsto la presentazione dell’attuale verbale di andamento dell’anno 2021-2022 da parte del segretario generale della camera, la relazione del revisore dei conti e ispettore legale, la lettura del bilancio con scadenza 20 Marzo 2022.
Successivamente, il budget proposto per il 2022-2023 è stato presentato e approvato dai partecipanti. Quindi si è tenuta una votazione per eleggere un ispettore legale e supplente, e la sig.ra Tarane Erfanian Azimzadeh Khosravi è stata eletta come l’ ispettore principale e il sig. Afshin Riahi è stato eletto ispettore secondario.
Inoltre, dal voto degli intervenuti, il giornale d’informazione è stato determinato come gazetta ufficiale della camera per l’affissione degli annunci e l’istituto di revisione “Azmoun” come revisore legale della camera Iran-Italia.

cropped

la parola di caporedattore

Antica industria tessile dell’Iran


In primo luogo, al fine di creare consapevolezza sull’industria tessile vecchia e creatrice di posti di lavoro, è necessario citare alcune statistiche sulla quantità di occupazione creata da questa industria e sul suo impatto sul corpo economico e sociale del paese. Secondo statistiche e informazioni ufficiali, l’industria tessile iraniana ha il più alto livello di occupazione nel paese. Circa 300.000 posti di lavoro diretti, che di per sé parlano della grande importanza di questo ramo industriale, circa 6.000 unità industriali con licenza di esercizio, che rappresentano 11% di tutte le aziende attive nel settore industriale, Circa 900.000 persone sono impiegate direttamente, ovvero il 21% del numero totale di lavoratori nelle industrie del paese, e un numero molto significativo di posti di lavoro indiretti creati da questo settore, mostrano tutti la forza e l’impatto dell’industria tessile tra le altre industrie nel nazione. L’industria tessile, invece, soprattutto nel nostro Paese, è considerata un’industria locale e ben nota. Un settore in cui le nostre madri, i nostri padri e i nostri antenati sono impegnati da molto tempo (filatura, tessitura di vari tipi di tessuti di cotone e seta, tessitura di tappeti, tessitura di tappeti, ecc.) che era unico per bellezza e qualità ai suoi tempi. Penso che sia raro trovare un settore che abbia un valore aggiunto così alto. Il cotone, che oggi si compra (a un prezzo di 100-110mila toman al chilo), viene venduto con un altissimo valore aggiunto dopo essere stato convertito in filo e tessuto, e infine abiti con vari disegni e forme vengono indossati da tutta la gente del mondo. Industria tessile, oltre alla creazione di posti di lavoro e ad alto valore aggiunto; Richiede meno investimenti rispetto ad altri settori, ad esempio, con circa 20 milioni di dollari di investimenti in valuta estera e la creazione di un’unità tessile completa e moderna, si creeranno circa duemila opportunità di lavoro, mentre tale occupazione non verrà creata con investimenti simili in altri settori. La cosa importante dell’industria tessile è che oltre il 95% di questa industria appartiene al settore privato, il che è un vantaggio evidente, e le persone coinvolte in questo settore stanno cercando con tutte le loro forze di mantenerlo, sopravvivere e migliorarlo.
Purtroppo, negli ultimi anni, le ingiuste e crudeli sanzioni estere, hanno inferto un duro colpo al settore tessile, e nonostante i produttori abbiano superato le sanzioni, il danno causato a questo settore è ancora quello delle sanzioni interne, il cui effetto non è minore, se non maggiore delle sanzioni estere. Perché l’esperienza ha dimostrato che con le capacità e il talento dei giovani capaci e talentuosi del Paese, è possibile ridurre l’efficacia delle sanzioni estere, che si basano principalmente sulle leggi e sulle linee guida dell’organo di governo del Paese. Si spera che in una situazione così delicata, si vedrà almeno la rimozione di molti ostacoli e problemi interni in modo che gli artigiani interessati del paese non debbano preoccuparsi delle leggi e dei regolamenti problematici e retroattivi che ne ostacolano il lavoro e il progresso .